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«In Iraq i musulmani devono fare di più per isolare i terroristi»

Manuela Borraccino
21 febbraio 2011
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«In Iraq i musulmani devono fare di più per isolare i terroristi»
Monsignor Michael Al Jamil predica nella basilica di San Gaudenzio a Novara.

L’islam «migliore» non è riuscito fino ad oggi «né a deplorare a sufficienza l’aberrazione della violenza in nome di Dio, né a mettere fine» all’estremismo che si va diffondendo «come un cancro» tra i seguaci di Maometto. È la denuncia dell’arcivescovo emerito di Mosul dei Siri, e dal 1997 procuratore siro-antiocheno in Vaticano, mons. Michael Al Jamil. Lo abbiamo incontrato ieri a Novara.


(Novara) – L’islam «migliore» non è riuscito fino ad oggi «né a deplorare a sufficienza l’aberrazione della violenza in nome di Dio, né a mettere fine» all’estremismo che si va diffondendo «come un cancro» tra i seguaci di Maometto, mentre i leader musulmani dovrebbero essere «più decisi nel proteggere la loro etica civile e religiosa». È la denuncia dell’arcivescovo emerito di Mosul dei Siri e dal 1997 procuratore siro-antiocheno in Vaticano, mons. Michael Al Jamil, 71 anni, a margine di una Messa celebrata in rito orientale ieri a Novara, su invito del vescovo mons. Renato Corti, per sensibilizzare i fedeli sul dramma dei cristiani iracheni.

Eccellenza, lei è visitatore apostolico per i siri residenti in Europa occidentale e viaggia spesso in Italia e in Francia. Che cosa chiede in particolare ai fedeli in Occidente?
Chiediamo ai cittadini né più né meno di quanto chiediamo ai governanti e cioè di restare fisicamente e spiritualmente, con una solidarietà concreta, al fianco dei cristiani iracheni, che sono diventati da anni bersaglio di attacchi atroci: preti uccisi, vescovi rapiti e uccisi, famiglie trucidate dentro le loro case, pullmini di studenti assaltati mentre andavano all’università, con morti e centinaia di feriti… L’ultima strage del 31 ottobre nella nostra chiesa siro-cattolica di Baghdad, con 55 morti e oltre 100 feriti fra le persone riunite in preghiera, è stata di una ferocia senza precedenti. La situazione è diventata sempre più difficile, tanto che molti si vedono costretti a fuggire.

Pensa che sia possibile – e giusto – fermare l’emigrazione?
Quel che penso è che per i cristiani iracheni emigrare porta una morte peggiore di quella che può venire dal terrorismo: perché in Iraq muoiono da martiri, mentre per molti di loro venire a vivere in Occidente significa voltare le spalle alla propria fede, alla propria tradizione e cultura, dimenticare la propria identità fino ad abbracciare costumi immorali. E questo è peggio della morte. Perciò esorto tutti a fare quanto possono per proteggere la presenza dei cristiani in patria, in Iraq e nel resto del Medio Oriente, e a fare pressione sui governi perché portino avanti con tutti i mezzi possibili la tutela delle minoranze non musulmane.

Lo scorso gennaio il Parlamento europeo aveva approvato il testo di una risoluzione che è stata poi ritirata per la mancata menzione delle minoranze cristiane invece dell’espressione «minoranze religiose». Che ne pensa?
Credo che fosse comunque un passo avanti, e che nella drammatica situazione in cui versiamo non è il caso di attaccarsi a dei cavilli. Però al di là di questo episodio, quel che vedo è che le democrazie occidentali, così sollecite a difendere i diritti umani a parole, non riescono a capire la mentalità orientale e soprattutto il pensiero politico di alcune correnti fanatiche dell’islam che considerano i loro concittadini cristiani come una estensione dell’Occidente colonialista, se non gli eredi delle Crociate. Perciò, come cristiani d’Oriente, quello che chiediamo all’Occidente è di osservare in profondità la situazione attuale e, anziché appoggiare con le armi e dando la priorità agli interessi economici il fanatismo tra le varie comunità religiose in Oriente, di alzare piuttosto la voce contro ogni estremismo, ingiustizia e violenza, in difesa della convivenza tra le varie componenti di ognuno dei nostri Paesi del Medio Oriente.  

Cosa fa il governo iracheno per prevenire e punire queste stragi?
La risposta del governo è che i cristiani sono vittime del clima di violenza nel Paese, come lo sono gli altri cittadini. Ma in realtà non è così: i cristiani non appartengono ad alcuna delle fazioni in lotta fra sunniti e sciiti, non prendono parte ai conflitti interni e non hanno armi, neppure per difendersi. I cristiani non hanno obiettivi politici: vogliono soltanto continuare a vivere in pace nel loro Paese, con i loro concittadini musulmani. Chiedono perciò il rispetto dei diritti umani fondamentali e dei diritti di cittadinanza.

Molti cristiani già si sono rifugiati in Kurdistan: il cosiddetto «Piano di Ninive» potrebbe dare più sicurezza ai cristiani?
Assolutamente no: si tratta di un piano pericolosissimo, che potrebbe anche rivelarsi una trappola, e del tutto anacronistico: i cristiani non vogliono rinchiudersi in un ghetto: sia il clero iracheno sia la Santa Sede hanno sempre contrastato questa ipotesi.

Quali azioni porta avanti il Vaticano a tutela dei cristiani?
La Santa Sede, da molti anni, non si stanca di condannare in tutte le sedi diplomatiche e istituzionali questi crimini contro l’umanità, che sono tra l’altro la ragione principale dell’esodo dei cristiani da tutto il Medio Oriente, non solo dall’Iraq: l’emigrazione dalla regione è fonte di grande preoccupazione per tutti. Non stiamo parlando semplicemente di una minoranza religiosa, poiché in gioco c’è qualcosa di molto più grande: si tratta dei luoghi che racchiudono le radici stesse del cristianesimo, radici che costituiscono un lievito per lo sviluppo di una vita di coesistenza pacifica e di fratellanza fra cristianesimo, islam e altre religioni. La nostra paura è che questa cristianofobia si estenda ad altri Paesi, come già accade: l’abbiamo visto anche con la strage di Capodanno ad Alessandria d’Egitto.

Si parla da molti anni dell’ambiguità del rapporto fra islam e violenza. Che riscontri avete all’interno dei fori del dialogo islamo-cristiano sul terrorismo di matrice islamica?
Sappiamo bene che gran parte dei musulmani non sono terroristi, però è un dato di un fatto che finora non si è visto nessun terrorista che non fosse musulmano. Il che vuol dire che sono più inclini alla violenza di quanto ci si aspetterebbe da uomini di preghiera, di fede, dunque di pace. In effetti i cristiani aspettano che l’islam si mostri molto più deciso a recuperare il ruolo che aveva quando cristiani e musulmani, nel decimo secolo, fondarono a Baghdad una delle prime università del mondo e con essa gettarono insieme le radici della cultura araba. I cristiani chiedono ai leader musulmani di non permettere a queste correnti estremistiche di svuotare l’Oriente del cristianesimo e distruggere la convivenza secolare che c’è stata. Purtroppo però l’islam migliore non è riuscito finora né a deplorare a sufficienza l’aberrazione della violenza in nome di Dio, né a mettere fine a tali correnti. La nostra speranza è che i musulmani sappiano essere più decisi nel proteggere la loro etica civile e religiosa, impegnandosi a sostenere la presenza dei cristiani e soprattutto a fermare l’estremismo violento che da diversi anni ormai si sta diffondendo come un cancro all’interno dell’Islam.  

È stato il clero iracheno a chiedere la convocazione del Sinodo. Che cosa ha rappresentato questo evento?
Il Sinodo ha segnato innanzitutto per le Chiese d’Oriente la presa di coscienza dell’essenza del loro ruolo, della loro vocazione storica in quella particolarissima area geografica del mondo, e del dovere di vivere la fede in modo esemplare, a dispetto delle difficoltà. Inoltre è stato un’occasione per lanciare l’impegno a essere molto più uniti nella pastorale, nell’apostolato, nella vita della Chiesa: nel mondo globalizzato, e a maggior ragione come minoranze, ha poco senso continuare a sottolineare le proprie differenze fra cattolici orientali. È ora di unirsi. Una terza area di intervento è certamente quella del dialogo con i musulmani, e qui speriamo davvero col tempo di procedere insieme nella costruzione dei nostri Paesi, per il progresso delle nostre società.

Dopo la Tunisia e l’Egitto, i popoli del Nord Africa e del Medio Oriente stanno vivendo una rivoluzione della quale si fa ancora fatica a percepire la portata. È davvero iniziata una nuova stagione per il mondo arabo?
È troppo presto per dirlo. Certamente dopo 30-40 anni era ora che questi tiranni se ne andassero. Ma, come dite in Italia, una rondine non fa primavera. Certi regimi non crollano dall’oggi al domani: ci vogliono anni per instaurare la democrazia in Paesi vissuti lungo tempo sotto il controllo delle Forze armate. E il mio timore è che, nella confusione generale che fa seguito a queste rivolte, i cristiani finiscano ancora di più nel mirino della violenza e del fanatismo.

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