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Sabella: Noi, per una società accogliente

Simone Esposito
9 ottobre 2010
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Sabella: Noi, per una società accogliente
Il sociologo e deputato palestinese Bernard Sabella.

Bernard Sabella, docente all’Università di Betlemme e deputato palestinese, è uno dei laici cattolici che prenderanno parte al Sinodo dei vescovi sul Medio Oriente. Gli sta a cuore una Chiesa che costruisce ponti. «Il ruolo delle istituzioni cattoliche – dice – è iniziare a coltivare legami tra le diverse comunità di fede e creare un terreno comune».


«Il ruolo delle istituzioni cattoliche è iniziare a coltivare legami tra le diverse comunità di fede e creare un terreno comune: è qui che diventa decisiva la presenza della Chiesa, con le sue scuole, le università, i media, con la presenza di un clero dialogante». Bernard Sabella insiste molto su questo tema nel corso della sua lezione al workshop che Pax Romana, l’organizzazione internazionale degli intellettuali cattolici, sta tenendo in questi giorni a Roma in preparazione al Sinodo sul Medio Oriente. Docente di sociologia all’Università di Betlemme, deputato di Fatah al Consiglio legislativo palestinese, il parlamento di Ramallah, Sabella è anche membro del Consiglio delle Chiese del Medio Oriente e martedì scorso ha ricevuto la nomina a uditore del Sinodo: è uno dei tre laici palestinesi a prendere parte all’assemblea episcopale. È da qui che partiamo, nel colloquio che il professore ci ha concesso.

Professor Sabella, cosa dovrebbe dire il Sinodo ai cristiani del Medio Oriente?
La priorità è questa: il Sinodo deve affermare con decisione che la Chiesa e i credenti in Medio Oriente sono parte integrante della società civile, e che in ragione di questa appartenenza essi devono lottare per una società accogliente per tutti i cittadini. Il Sinodo deve dire che la sfida non è semplicemente quella di capire come vivere con gli altri, ma quella di essere una componente sempre più attiva e vitale. C’è il rischio di una Chiesa di tradizione, e invece deve essere vivace, anzi, deve essere «generativa».

Ma il messaggio del Sinodo è atteso? Può avere un impatto reale tra la gente?
Io dico di sì. Il ruolo dei media è fondamentale. La gente segue i mezzi di informazione, commenta quello che dice il Papa, e farà attenzione a quello che dirà il Sinodo.

Anche a Gaza? Qual è la situazione dei cristiani nella Striscia, sotto il controllo di Hamas? C’è meno libertà?
Non direi, e in ogni caso non è questo il punto. Può anche esserci libertà, i rapporti possono essere anche buoni, ma rimane sempre un grande «ma»: Hamas vuole uno Stato palestinese islamico, uno Stato religioso. Questo può essere buono per i non musulmani? Io dico di no. Non ho fiducia negli Stati religiosi: qualunque sia la loro fede, si rivelano sempre disastrosi.

Lei come giudica questo tentativo di ripresa dei negoziati diretti?
Credo che le speranze di successo siano molto deboli. D’altra parte, non è possibile fare la pace ad ogni costo: una pace duratura è ostacolata dalla gravità dei problemi sociali, soprattutto per le nuove generazioni.

Come la difficoltà di accesso all’istruzione e al mondo del lavoro?
Quest’ultimo è un problema terribile, sia a Gaza che in Cisgiordania. Le cifre della disoccupazione sono altissime e quelle della disoccupazione giovanile lo sono ancora di più. Rischiamo di avere una generazione «clandestina», che per guadagnarsi da vivere è costretta ad accettare qualunque compromesso. In questo scenario diventa ancora più decisiva l’azione educativa della Chiesa e anche la sua capacità di favorire la cooperazione fra le varie istituzioni che lavorano per lo sviluppo della società palestinese. Tornando alla situazione dei negoziati, il popolo palestinese ha bisogno di credere alla pace, ma è difficile fare i conti con la questione dei rifugiati, dei prigionieri, della distribuzione delle risorse, delle frontiere, delle colonie, di Gerusalemme. Adesso c’è anche la proposta di legge del primo ministro Benjamin Netanyahu sul giuramento di fedeltà allo Stato di Israele, in quanto Stato «ebraico». Tutto questo non aiuta.

Da dove si dovrebbe cominciare?
Dalla costruzione di una visione comune del futuro tra israeliani e palestinesi. È assolutamente necessario superare quella che oggi è la strategia di Israele di imporre la propria visione egemonica su tutta la regione.

Un tentativo importante di discussione e di confronto è il documento Kairos Palestina pubblicato nel dicembre scorso da un folto gruppo di palestinesi cristiani…
Il documento Kairos Palestina ha il merito di affermare due cose: che noi cristiani siamo parte del popolo palestinese e ci facciamo carico delle sue sfide, e che vogliamo guardare al conflitto pacificamente, in maniera non violenta, rinunciando a odiare e a vedere nell’altro il diavolo. Il punto di partenza è che siamo tutti esseri umani e figli di Dio.

Che impatto sta avendo il Documento sull’opinione pubblica?
Ancora non va bene. Ne discutono i cristiani, e anche un po’ i musulmani, ma dobbiamo ancora coinvolgere gli ebrei. Gli israeliani non accettano il Documento, lo percepiscono come valido solo per i cristiani e soprattutto si limitano a rifiutarlo perché, tra le forme di resistenza non violenta proposte, c’è il boicottaggio dei prodotti delle colonie. Allora dobbiamo «tradurre» il testo per gli ebrei. Il Documento deve diventare qualcosa che tiene insieme tutte e tre le religioni. Oggi quasi non ci conosciamo.

In che senso?
Racconto un piccolo aneddoto: mi è capitato più volte di parlare con dei giovani israeliani e di spiegare quello che faccio, cioè che insegno all’Università di Betlemme. E mi sono sentito rispondere con sorpresa: «Dove? Davvero? Esiste un’università a Betlemme?». Bisogna informare gli israeliani di quello che succede realmente nei Territori. Ripeto: la strada non è l’odio verso gli israeliani, ma il cambiamento.

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