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Il nunzio in Egitto: Per dialogare dobbiamo tutti superare i pregiudizi

Emile Amen
13 ottobre 2010
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Il nunzio in Egitto: Per dialogare dobbiamo tutti superare i pregiudizi
Il nunzio apostolico in Egitto, mons. Michael Louis Fitzgerald.

L’arcivescovo Michael Louis Fitzgerald è nunzio apostolico in Egitto. Non prende parte al Sinodo per il Medio Oriente in corso in Vaticano, ma giorni fa lo abbiamo raggiunto e gli abbiamo chiesto qualche riflessione sui temi all’ordine del giorno dell’assemblea sinodale. Le difficoltà nel dialogo coi musulmani, dice, nascono dall'ignoranza dell'altrui religione e dai reciproci pregiudizi.


(Il Cairo) – L’arcivescovo Michael Louis Fitzgerald (73 anni, inglese) è dal febbraio 2006 nunzio apostolico in Egitto, dopo aver guidato, a partire dall’ottobre 2002, il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. Non prende parte al Sinodo per il Medio Oriente in corso in Vaticano, ma giorni fa lo abbiamo raggiunto e gli abbiamo chiesto qualche riflessione sui temi all’ordine del giorno dell’assemblea sinodale.

Monsignor Fitzgerald, come vede le relazioni tra i musulmani e i copti alla luce dei numerosi conflitti recenti?
Anzitutto credo che bisognerebbe far attenzione alla formulazione di questa domanda. È molto comune parlare di copti e di musulmani, ma ciò non riflette fedelmente la realtà. È sì vero che i copti ortodossi rappresentano la maggioranza dei cristiani in Egitto, ma essi non sono i soli. Bisognerebbe tener presenti anche i greco-ortodossi, gli armeni apostolici, le sette Chiese cattoliche di vario rito e la Chiesa anglicana con le altre comunità protestanti. Sarebbe più corretto quindi parlare di relazioni tra musulmani e cristiani.
È vero che ci sono stati numerosi casi di violenze nei mesi scorsi, compresa l’uccisione di sei cristiani e un musulmano a Natale (che, seguendo il calendario giuliano, i copti hanno celebrato il 7 gennaio – ndr). Mi sembra che quell’episodio (avvenuto a Nag Hammadi – ndr) abbia indotto le autorità a riconoscere l’esistenza di una violenza settaria nel Paese e la necessità di prendere misure più adeguate per eliminarla. Ciò può dare la speranza di un miglioramento delle relazioni future tra musulmani e cristiani.

Come possono mantenersi questa coesistenza e questo dialogo tra cristiani e musulmani in Egitto quando gli imam nelle moschee nella loro predicazione del venerdì lanciano attacchi contro il cristianesimo?
Gli attacchi, dall’una o dall’altra parte, hanno origine dai pregiudizi e dall’ignoranza dell’altrui religione. È perciò necessario vigilare sulla formazione degli imam e dei sacerdoti. Una migliore collaborazione tra le autorità religiose su questo aspetto porterebbe grandi vantaggi.

Per quanto riguarda il dialogo con l’islam e i musulmani c’è qualche differenza tra il pontificato di Giovanni Paolo II e quello di Benedetto XVI?
Essenzialmente non c’è alcuna differenza perché entrambi i papi si basano sull’insegnamento del concilio Vaticano II, e in particolare sulla Nostra Aetate, la dichiarazione sulle relazioni tra la Chiesa e le altre religioni. Evidentemente, il popolo egiziano ha beneficiato della visita di Giovanni Paolo II nel 2000 e ha potuto sperimentare da vicino la sua grande bontà. Non c’è stato invece lo stesso contatto con Benedetto XVI. Ma possiamo dire che durante i suoi viaggi, per esempio quelli in Turchia e in Terra Santa, il Papa ha potuto manifestare il suo grande rispetto per l’islam e l’importanza che egli attribuisce alle buone relazioni tra cristiani e musulmani.

Il Papa parla sempre di pace nel mondo e in particolare nel Medio Oriente. Molti ritengono che non ci sarà pace nel mondo finché durerà il conflitto israelo-palestinese. È d’accordo?
Quando, intorno al 1965, papa Paolo VI lanciò la Giornata mondiale della pace, scrisse una lettera per invitare tutti, cristiani o meno, ad associarsi a questa preghiera. Un musulmano pakistano, Abu l-Ala Mawdudi, scrisse al Papa una lettera aperta in cui affermava quanto lei ha appena detto, e cioè che non ci sarà pace nel mondo senza una soluzione al conflitto arabo-israeliano. Credo che i fatti degli ultimi decenni abbiano confermato quel punto di vista. Dobbiamo quindi sostenere tutti gli sforzi per giungere a una soluzione che renda giustizia ai due popoli, israeliani e palestinesi.

Quali obiettivi si pone la Santa Sede con il Sinodo per il Medio Oriente in corso in Vaticano?
L’intento dichiarato dell’Assemblea speciale è duplice: confermare e rafforzare i cristiani nella loro identità grazie alla parola di Dio e ai sacramenti; ravvivare la comunione tra le Chiese particolari, così che possano dare una testimonianza di vita cristiana autentica. La situazione dei cristiani in Medio Oriente varia da Paese a Paese, ma vi sono delle costanti. C’è da sperare che la messa in comune di queste situazioni possa incoraggiare i cristiani del Medio Oriente e incoraggiare le comunità cristiane d’altre parti del mondo a dimostrarsi solidali nei loro confronti.

Quale contributo particolare può offrire la Chiesa cattolica ai suoi membri in particolare nei Paesi arabi del Medio Oriente?
È probabile che il Sinodo rinnoverà l’appello dei patriarchi d’Oriente ai membri delle proprie comunità perché riconoscano la missione che è loro propria. Queste comunità testimoniano la presenza cristiana in Medio Oriente sin dalla predicazione degli Apostoli ed è importante che una tale testimonianza sia mantenuta. Ciò chiede uno sforzo costante da parte di tutti, e non solo dei cristiani del Medio Oriente, per assicurare la piena libertà religiosa, insieme alla condizioni economiche necessarie alla sopravvivenza di queste comunità. Di sicuro si darà attenzione alle comunità della diaspora. Io stesso sono figlio di emigranti (i miei genitori andarono a cercar lavoro in Inghilterra dall’Irlanda) e posso dire che i migranti possono portare la testimonianza della loro fede ai Paesi che li ricevono. Nello stesso tempo essi debbono mantenersi solidali con le comunità che hanno lasciato nei Paesi d’origine. Non può neppure essere esclusa la possibilità che ritornino sui propri passi.

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