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Un'altra felice irruzione di Dio nella vita di Francesco è il dono «dei fratelli», ovvero dei compagni che gli chiesero di vivere con lui e come lui.

Dopo che il Signore mi diede dei fratelli

padre Giorgio Vigna ofm
3 marzo 2010
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Dopo che il Signore mi diede dei fratelli
Piero Casentini, Estasi di san Francesco (dettaglio), Santuario di San Damiano, Assisi

Richiamando i doni della conversione (penitenza) e dell’abbandono fiduciale (fede) nella Chiesa e ai sacerdoti, san Francesco ha evidenziato in particolare quanto il Signore ha operato nei suoi confronti; la ricaduta dei doni sui suoi fratelli è stata finora sullo sfondo.

Il suo sguardo si allarga ora per abbracciare quanti hanno accompagnato Francesco nella sua avventura: «E dopo che il Signore mi diede dei fratelli…» (Testamento 14 /FF 116). È il quarto dono. Se l’abbraccio al lebbroso fu un’irruzione poco prevedibile nella mente di un (pur generoso) borghese, l’arrivo di compagni che chiesero di unirsi a un felice solitario non lo fu da meno. Leggendo con attenzione gli essenziali ricordi del Testamento in parallelo con gli espansi racconti dei biografi (ad es. Leggenda dei Tre Compagni I-VII /FF 1395-1426), notiamo che i primi anni del cammino di Francesco furono costellati di svolte, spesso ad angolo retto e nella direzione opposta alle attese e ai sogni di un giovane amante della vita.

è stato fatto notare, con ragione ma non raramente con esagerazioni e inutili enfasi, che Francesco e il francescanesimo sono un «fenomeno» ecclesiale e sociale del XIII secolo con molti caratteri di novità rispetto ai movimenti religiosi e laicali sorti in quel (beato) tempo (purtroppo è raro che se ne facciano notare gli aspetti di continuità e di somiglianza). I fratelli in quanto dono  sono un piccolo esempio di novità: un secolo prima, per san Bernardo di Chiaravalle la solitudine era un punto di forza della vita ascetica del monaco: «Beata solitudo, sola beatitudo»… E nel XIV sec., l’autore de L’Imitazione di Cristo dirà, tra le altre cose analoghe: «Ogni volta che mi son trovato tra gli uomini, me ne sono ritornato meno uomo» (I,20,2)… Per Francesco invece la presenza dei compagni non fu né un limite né un inciampo, così come non lo fu l’incontro e la presenza con l’umanità ferita del lebbroso. Entrambi gli incontri e le presenze sono stati realisticamente riconosciuti dono e dunque simbolo dell’incarnazione di Dio!

L’arrivo dei fratelli fu però un evento che costrinse Francesco a ripensare il suo modo di vivere: «Nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma l’Altissimo stesso mi rivelò…». All’imbarazzante domanda «che fare ora che non son più solo?» la risposta giunse dalla gratuità di Dio, carica della forza disarmante della semplicità: «Che io dovessi vivere secondo la forma del santo vangelo». Francesco non pensò a strutture gerarchiche e organizzative, ma a stendere «poche e semplici parole» (del Vangelo), quasi a forma di promemoria o di sintesi di una Parola ampia che avrebbe dato davvero forma alla vita sua e dei suoi fratelli. Il passo successivo fu quello di rivolgersi all’autorità della Chiesa: «E il signor papa [Innocenzo III] me (la) confermò» (Testamento 15 /FF 116). Per Francesco la regola di vita cristiana non necessita d’altro che la figura di Gesù e il suo vangelo; allo spirito di libertà profetica di quest’uomo bastava lo Spirito di Dio (infatti avrebbe chiamato lo Spirito Santo, ministro generale dell’Ordine: Tommaso da Celano, Vita seconda, 193 /FF 779). Tracce di questa Regola essenziale (1209-1210) sono ancora ben riconoscibili nella Regola non bollata (cioè non approvata, 1221), che in molti tratti risente dei primi interventi giuridici della Curia romana. Le tracce consistono nelle citazioni di passi evangelici riportati in semplice successione: Mt 19,21; 16,24; Lc 14,26; Mt 19,29.

Il ricordo dei fratelli prosegue con un dettaglio sulla loro accoglienza: «E quelli che venivano per abbracciare (questa) vita, davano ai poveri tutto quello che potevano avere; ed erano contenti di una sola tonaca, rappezzata dentro e fuori, del cingolo e delle brache. E non volevamo avere di più» (Testamento 16-17 /FF 117). Francesco dunque pose come «condizione» per unirsi alla fraternità la sola spogliazione di tutti gli averi per rivestirsi unicamente dei panni del mendicante.

Chiudiamo queste troppo brevi riflessioni con la meravigliosa visione sintetica del poeta (e teologo) Dante: «Ma perché io non proceda troppo chiuso, / Francesco e Povertà per questi amanti / prendi oramai nel mio parlar diffuso. // La lor concordia e i lor lieti sembianti, / amore e maraviglia e dolce sguardo / facieno esser cagion di pensier santi; // tanto che’l venerabile Bernardo / si scalzò prima, e dietro a tanta pace / corse e, correndo, li parve esser tardo. // Oh ignota ricchezza! oh ben ferace! / Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro / dietro a lo sposo, sì la sposa piace. // Indi sen va quel padre e quel maestro / con la sua donna e con quella famiglia / che già legava l’umile capestro. // Né gli gravò viltà di cuor le ciglia / per esser fi’ di Pietro Bernardone, / né per parer dispetto a maraviglia; // ma regalmente sua dura intenzione / ad Innocenzo aperse, e da lui ebbe / primo sigillo a sua religione» (La Divina Commedia, Paradiso XI,73-93).

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