Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

A proposito di «ebrei messianici»

Elena Lea Bartolini De Angeli
19 marzo 2010
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È possibile che, visitando la Città vecchia a Gerusalemme nei pressi della porta di Jaffa, o recandosi ad Ein Karem, si senta parlare di comunità di «ebrei messianici» che in quei luoghi – e non solo – hanno la loro sede, o può succedere comunque di sentirli nominare non necessariamente in riferimento a Gerusalemme. Ma chi sono? «Ebrei cristiani»? O qualcos’altro?

Il fenomeno non nasce in Terra di Israele ma vi arriva con la ‘alijiah, il «ritorno» verso la Terra dei padri. Il contesto originario va ricercato in Occidente nel movimento Jesus-believing Jews (Jbj) che si rifà agli ebrei credenti in Gesù del primo secolo. Non a caso cercano di individuare un possibile legame con la primitiva comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme, idea che affermano con forza a Londra durante l’International Hebrew Christian Conference del 1925, alla quale partecipano delegati di 22 nazioni. È in quest’ambito che, progressivamente e fra alterne vicende, si sviluppa l’attuale movimento dei Messianic Jews (ebrei messianici).

Gli studiosi del fenomeno tuttavia, individuano come uno dei più influenti predecessori di tutto questo Joseph Rabinowitz, nato in una famiglia chassidica della Russia, che giunse alla fede in Gesù durante un viaggio in Palestina nell’estate del 1882. L’originalità di Rabinowtiz e del movimento da lui fondato («Israeliti della nuova alleanza») sta nell’insistenza ostinata con cui affermò che la sua fede in Gesù non aveva fatto di lui un ex-ebreo, anche se aveva deciso di farsi battezzare come segno di appartenenza all’universale Chiesa di Cristo senza per questo diventare un membro di una particolare denominazione cristiana della gentilità e senza abbandonare la sua identità ebraica.

Fin dall’inizio contraddistinti da correnti diverse, e variamente influenzati dalla Haskalah, «l’emancipazione» ebraica, i Messianic Jews si delineano sempre di più come coloro che hanno deciso di credere in Gesù di Nazaret come Figlio di Dio e Redentore. Sul contenuto dell’espressione «Figlio di Dio» non c’è uniformità: c’è chi lo comprende soltanto in termini umani escludendone la divinità, e c’è chi invece cerca di giustificare la sua origine divina riconducendola alla Qabbalah – la mistica ebraica – o al concetto di Shekhinah, «presenza di Dio», escludendo quindi qualsiasi riferimento ai Simboli cristiani da Nicea in poi. Si dividono anche sull’adesione o meno alla tradizione orale ebraica: c’è chi riconosce solo la Torah (Pentateuco) scritta. Sostanzialmente comunque osservano i precetti e celebrano il Sabato, qualche gruppo celebra anche la Domenica con modalità proprie, la festa principale rimane la Pasqua, sia come Pasqua ebraica che come «memoriale» di Gesù. Tutto ciò nell’attesa del suo ritorno, quindi come «messia» che non ha ancora concluso la sua opera, che deve realizzare i «tempi messianici definitivi» che ogni ebreo attende.

Il problema di fondo è come mostrare la propria identità di fronte alla Sinagoga e alla Chiesa: per il momento i rapporti restano difficili, il rabbinato – e le correnti religiose ortodosse – non vedono bene il fenomeno, e le diverse confessioni cristiane – alle quali ogni tanto qualche gruppo tenta di collegarsi – hanno comprensibili difficoltà ad integrarli al loro interno. C’è comunque chi ritiene che gli ebrei messianici contribuiscano a riaprire in maniera significativa la riflessione sulla fine del giudeo-cristianesimo che ha privato di fatto la Chiesa cristiana del legame diretto con la sua radice ebraica.

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