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Nel suo Testamento, Francesco d'Assisi li chiama «i miei signori»: sono i sacerdoti, nei quali il Santo vede unite la grandezza dell'ordine e la povertà dell'uomo.

Il terzo grande dono, la «grazia» dei sacerdoti

padre Giorgio Vigna ofm
8 gennaio 2010
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Il terzo grande dono, la «grazia» dei sacerdoti
Piero Casentini, Presepio di Greccio, Limiti di Greccio (Rieti), 2004

Non voglio considerare in essi il peccato, perché in loro scorgo il Figlio di Dio, e sono miei signori» (Testamento 9 /FF 113). San Francesco sta parlando dei sacerdoti, nei cui confronti egli ha ricevuto dal Signore una «così grande fede»: è il terzo dono che egli riconosce e confessa (vv. 6-9 /FF 112-113) dopo quello dell’incontro con l’umanità ferita rappresentata dal lebbroso e quello della fede nelle chiese.

Se leggiamo il contesto più ampio, siamo impressionati dal contrasto tra il forte sentire di Francesco (la «così grande fede») e l’oggetto a cui egli si riferisce: non tutti i sacerdoti in quanto tali, ma quelli che «vivono secondo la forma della santa Chiesa romana», cioè nella comunione ecclesiale, e, soprattutto, quelli che esercitano una sorta di «persecuzione"» (v. 6), quelli poveri di istruzione (v. 7), quelli in qualche modo peccatori (v. 9)! L’attenzione di Francesco per i sacerdoti si fonda dunque su un aspetto teologico («a motivo del loro ordine», v. 6) e su un aspetto umano, la loro povertà. L’essenzialità teologica e la misericordia verso la condizione umana concreta si accompagnano e si sostengono, invece di opporsi.

Collochiamoci ora mentalmente nel tempo: siamo a circa tre secoli prima del Concilio di Trento (1545-1563), che deciderà, tra l’altro, l’organizzazione delle diocesi e del clero, e la costituzione dei seminari di formazione. In pieno Medio Evo, non era certo irrilevante il fermento ecclesiale, che vedeva il sorgere e il morire di movimenti evangelici coinvolgenti chierici e laici, uomini e donne, non sempre ortodossi, né era diffusa l’istruzione del clero, riservata ai monasteri e alle insorgenti università. Nel contesto del tempo, quindi, il solido spirito teologico e misericordioso di Francesco, ben lontano dalle velleità riformistiche e da rumori pubblicitari, è stato di fatto determinante per far rivivere l’essenzialità del Vangelo.

Un altro contrasto emerge nella confessione di Francesco. A fronte della persecuzione, dell’ignoranza e del peccato dei sacerdoti, egli sceglie nei loro confronti la sottomissione e il riconoscimento della loro dignità. Sappiamo bene che la sottomissione (o l’obbedienza che «tiene l’uomo suddito e sottomesso a tutti gli uomini che sono nel mondo», Saluto alle virtù 16 /FF 258) sono atteggiamenti e stili che caratterizzano la vita quotidiana del Santo, ed il suo insegnamento circa l’amore evangelico per il "nemico": «Mai dobbiamo desiderare di essere sopra gli altri, ma anzi dobbiamo essere servi e soggetti ad ogni umana creatura per amore di Dio» (Lettera a tutti i fedeli IX,47 /FF 47). «Veramente ama il suo nemico colui che non si duole per l’ingiuria che quegli gli fa, ma brucia nel suo intimo, per l’amore di Dio, a motivo del peccato dell’anima di lui» (Ammonizione IX,2-3 /FF 158). «O frati tutti, riflettiamo attentamente su ciò che il Signore dice: "Amate i vostri nemici e fate del bene a quelli che vi odiano" (Mt 5,44), poiché il Signore nostro Gesù Cristo, di cui dobbiamo seguire le orme, chiamò amico il suo traditore e si offrì spontaneamente ai suoi crocifissori. Sono, dunque, nostri amici tutti coloro che ingiustamente ci infliggono tribolazioni e angustie, ignominie e ingiurie, dolori e sofferenze, martirio e morte, e li dobbiamo amare molto poiché, a motivo di ciò che essi ci infliggono, abbiamo la vita eterna» (Regola non bollata XXII,1-4 /FF 56). Il riconoscimento della dignità, poi, significa onorare in qualche modo la persona, chiunque essa sia, di cui ne è portatrice. Per Francesco, ogni sacerdote, per quanto la sua povertà possa essere grande, è «suo signore» (vv. 8.9), poiché in lui scorge il Figlio di Dio, cioè il Signore (v. 9), e perciò deve essere temuto, amato e onorato (v. 8; cfr. Regola non bollata XIX,3 /FF 52).

Nel ricordare ai suoi frati (e a noi) un altro tratto della sua vita, Francesco non cessa di invitare al superamento evangelico del «non giudicare» per abbracciare non solo il sacerdote, ma ogni uomo e donna, debole e potente, sano e ammalato, con l’abbraccio della pace del cuore. Voleva che i suoi figli vivessero in pace con tutti (cfr. Rm 12,18), e verso tutti senza eccezione si mostrassero piccoli. Ma insegnò con le parole e con l’esempio ad essere particolarmente umili coi sacerdoti secolari. «Noi, ripeteva, siamo stati mandati in aiuto del clero per la salvezza delle anime, in modo da supplire le loro deficienze» (2Celano 146 /FF 730).

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