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Frammenti di terra

Paola Caridi
30 novembre 2009
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Frammenti di terra
Lavori in corso per la costruzione del muro di separazione israeliano nei pressi di Ramallah, in Cisgiordania.

Gli israeliani che vivono negli insediamenti sono oltre mezzo milione e rappresentano il 10 per cento della popolazione d'Israele. Ecco perché hanno un peso nelle decisioni politiche e nei negoziati di pace.


Il viaggio è breve. Poche decine di chilometri, quelle che separano Ramallah da Nablus. Buona strada, veloce, lungo la campagna palestinese che cambia repentinamente, più si sale verso il nord. È su questo nastro costeggiato dalla parte più ricca della terra cisgiordana che il nodo del conflitto israelo-palestinese appare chiaro, come un film. Il cortometraggio dello scontro. A destra e a sinistra della strada che corre da Ramallah a Nablus, quasi tutte le colline sono punteggiate di bianco. A un occhio allenato, i profili dei container sono netti. I container degli outpost, i cosiddetti avamposti illegali, primo passo verso la formazione di un insediamento vero e proprio, nel cuore del territorio palestinese. Prima uno, un semplice container di metallo appoggiato sulla terra, magari prima ancora una tenda. Poi, al container se ne aggiungono altri, in una sorta di terrazzamento del fianco della collina. File di container bianchi, pali della luce, cisterna dell’acqua, e i reticolati che chiudono l’avamposto. Il passo successivo è la trasformazione del container in una villetta in muratura. Uno dopo l’altro, sino a che l’avamposto non diviene un vero e proprio insediamento, in mezzo alla Cisgiordania, tra un villaggio palestinese e l’altro.

Di avamposti ce ne sono sinora almeno cento. E ogni volta che percorrono quella strada, forse la più importante in Cisgiordania, i palestinesi dicono di averne visto uno in più, di container, di avamposto, di villetta. Gli outpost sono poco meno del numero delle colonie più strutturate, in totale centoventi, che hanno cominciate a nascere già all’indomani della guerra del 1967 e l’occupazione, da parte di Israele, di Cigiordania, Gaza e Gerusalemme est. Se i numeri sono simili, è però sulla popolazione che abita avamposti e colonie che si gioca la vera differenza: appena quattromila gli israeliani che vivono nei container, ben 289 mila quelli che – statistiche ufficiali israeliane alla mano – risiedono nelle colonie della Cisgiordania. Numeri già di per sé imponenti, a cui vanno aggiunti i 190 mila israeliani che vivono nei quartieri costruiti a est della Linea Verde dentro Gerusalemme, dentro la Gerusalemme araba, sin dai tempi in cui era sindaco della città Teddy Kollek. Quei quasi duecentomila israeliani, che vivono nella periferia orientale di Gerusalemme così come nei quartieri musulmano e cristiano della città vecchia, portano il totale del popolo dei coloni, quello indicato in tutte le statistiche dell’Onu,  a quasi mezzo milione di persone. Una questione gigantesca, gettata letteralmente in mezzo al tavolo del processo di pace.

Gli israeliani che vivono negli avamposti rappresentano, insomma, una minima percentuale, rispetto al totale degli abitanti degli insediamenti. Eppure, quei container sono importanti. Sono gli unici che le autorità israeliane siano disposte a spostare, magari a chiuderne alcuni. Completamente diverso, l’atteggiamento del governo israeliano verso le vere e proprie colonie, altrettanto illegali sul  piano della legalità internazionale. Da quarant’anni, da quando la colonia di Kfar Etzion fu fondata,  nessun governo, laburista o di destra che fosse, ha mai interrotto l’ampliamento degli insediamenti.

Neanche Oslo, il processo di pace, il sogno dei due Stati, israeliano e palestinese, ci sono riusciti. Nel 1993 i coloni erano circa 115 mila in Cisgiordania. Ora sono poco meno che triplicati, rendendo impossibile uno Stato palestinese che non sia, nei fatti, cantonalizzato. Colonie vuol dire, infatti, sistema di sicurezza, protezione, vivibilità e sostegno economico. Tutte necessità che, nei fatti, hanno significato la frammentazione del territorio della Cisgiordania e di Gerusalemme est, e l’impossibilità di tracciare un confine netto. Di qua gli israeliani, di là i palestinesi.

Gli israeliani che vivono nelle colonie rappresentano, facendo rapidamente i calcoli, un buon dieci per cento della popolazione israeliana ebrea. Senza dunque contare la forte minoranza arabo-israeliana. È una percentuale abbastanza rilevante per incidere sulle decisioni politiche che si potrebbero prendere in una ipotetica riapertura dei negoziati di pace.

A confermarlo, sono gli ultimi dati sulle costruzioni in corso nelle colonie, proprio in una fase nella quale tutta la comunità internazionale, dagli Stati Uniti all’Unione Europea, ha chiesto a Israele di congelare gli insediamenti. Ben 800 unità immobiliari sono invece in costruzione negli ultimi tre mesi, secondo i dati di  Peace Now, l’associazione israeliana che ha un capillare sistema di monitoraggio delle colonie. Gru al lavoro, e molto rapidamente, non solo negli insediamenti che si trovano già a ovest del Muro di Separazione, ma anche in quelli a est, in quella che Peace Now definisce una «corsa» in vista di un possibile accordo tra il premier Benjamin Netanyahu e il presidente americano Barack Obama. «I coloni – scrive Peace Now nel suo ultimo rapporto – stanno lavorando velocemente per far partire quante più costruzioni è possibile, così che le nuove unità immobiliari siano conteggiate come insediamenti già esistenti, perché dunque non siano incluse in un qualsiasi accordo futuro sul congelamento» delle colonie.

Le gru al lavoro e le pressioni sul governo israeliano non debbono però far pensare al popolo dei coloni come a un settore omogeneo della società israeliana. Perché i coloni omogenei non sono, al proprio interno, per provenienze, per culture, per posizioni politiche. Si possono suddividere in tre settori, tutti e tre di dimensioni simili: gli ideologici, gli ortodossi, gli «economici». Il quarto settore, quello degli ultraradicali, rappresenta in termini numerici poche decine di migliaia di aderenti. Gli ideologici invece, coloro che vivono nelle colonie perché per loro la Cisgiordania è Giudea e Samaria, terra della Bibbia, Eretz Israel, si sono spostati sempre di più verso il cosiddetto sionismo religioso, legato del tutto alla destra dello schieramento politico israeliano. Gli ultraortodossi vivono ormai in città-colonie a loro riservate, e sono del tutto distanti dal nazionalismo dei coloni ideologici.

Accanto a questi due settori molto connotati dal punto di vista politico, c’è una galassia variopinta, quella dei coloni «economici». Gli israeliani che sono andati a vivere a est della Linea Verde perché conveniva, dal punto di vista economico, della qualità della vita, degli incentivi fiscali. Sono immigrati di origine russa, etiope, sono le classi sociali più disagiate, sono tutti coloro per i quali l’idea di una casa a poco prezzo era molto appetibile. Il governo israeliano li ha spinti, ad andare ad abitare in colonia. Secondo uno dei tanti rapporti di B’Tselem, altra nota associazione pacifista israeliana, i benefit per i coloni «economici» sono stati elargiti nel corso dei decenni da ben sei ministeri, da quello delle Finanze al dicastero dell’Industria e Commercio, sino ai ministeri del Lavoro e degli Affari sociali, dell’Educazione, dell’Edilizia, all’Amministrazione del territorio d’Israele. Sino alle amministrazioni locali, che hanno dato facilitazioni talmente alte da rappresentare, nel 2000, circa una volta e mezza  quelle assegnate ai residenti dentro i confini di Israele definiti dall’armistizio del 1949. La famosa Linea Verde.

Persone così diverse, coloni «economici» e coloni ideologici, si uniscono solo su di un punto, fondamentale. Gli insediamenti non si toccano, sono una realtà, una qualsiasi trattativa sui confini non può toccare ciò che c’è già «sul terreno». È per questo che, sulla direttrice Ramallah-Nablus, i container aumentano a vista d’occhio, spaccando nei fatti il territorio palestinese. È per questo che le colonie più importanti, dal punto di vista «ideologico», sono proprio attorno a Nablus, circondata da insediamenti come Elon Moreh, Bracha, e soprattutto Ytzhar, una delle più radicali. Il tycoon palestinese, Munib al Masri, in classifica tra i più ricchi arabi, ci vive accanto. Una delle colonie più radicali è proprio accanto alla Rotonda, la splendida villa di imitazione palladiana che sovrasta Nablus, la capitale economica della Cisgiordania.

E se la situazione è contorta, difficile, ormai inestricabile nell’area di Nablus, non è più semplice nella zona di Hebron, capoluogo della Cisgiordania meridionale. Un territorio popolato da 200 mila palestinesi, in cui si incuneano altre colonie, altrettanto radicali. Come quella di Kiryat Arba, la colonia dov’è sepolto Baruch Goldstein, colui che compì l’attentato terroristico dentro la moschea Ibrahimi, il secondo luogo santo musulmano in Palestina, dopo la Spianata delle Moschee a Gerusalemme. Era l’alba, nel febbraio del 1994, pieno ramadan, e Goldstein uccise 29 fedeli riuniti in moschea, prima di essere a sua volta ucciso. A Kiryat Arba, la tomba di Goldstein, che apparteneva al movimento estremista Kach, è ancora oggi meta di pellegrinaggio.

Le frizioni attuali, però, sono fuori da Kiryat Arba. Sono sulle colline a sud, tra avamposti e colonie, sono nel cosiddetto blocco di Gush Etzion. Sono, soprattutto, nel cuore di Hebron, nella sua città vecchia, nell’area attorno all’edificio sacro che, dopo la strage compiuta da Goldstein,  è diviso tra la moschea Ibrahimi e la Tomba dei Patriarchi. Le colonie israeliane dentro Hebron, dove vivono poche centinaia di esponenti radicali, sono il nodo della frizione tra palestinesi e israeliani. Tanto che, per monitorarla e per calmierarla, ci sono ancora gli osservatori internazionali del Tiph, la missione temporanea (ma che dura ormai da anni) di cui fanno parte anche i nostri carabinieri.

Lungi dall’essere un fatto locale, confinato nella Cisgiordania meridionale, ciò che succede a Hebron rischia di essere replicato, con rischi molto maggiori per la pace, anche nel cuore di Gerusalemme, dentro la Città Vecchia. La politica seguita, infatti, da associazioni di coloni radicali come Ateret Cohanim o la Elad, è quella – secondo le loro stesse parole – di «redimere la terra», e cioè di acquistare case dentro i quartieri musulmano e cristiano della Città Vecchia. Una pratica già evidente, che sta già creando alta tensione dentro le mura antiche di Solimano, e che ha già suscitato critiche da parte della comunità internazionale. Il rischio evidente è la hebronizzazione di Gerusalemme, e cioè una frammentazione interna delle zone abitate da palestinesi, sia fuori sia dentro la Città Vecchia, che renderà impossibile qualsiasi divisione, in caso di una ripresa costante dei negoziati di pace. E impossibile la soluzione dei due Stati.

Se ne sono accorti anche a Washington, non solo dentro la Casa Bianca. Ma anche dentro l’ebraismo americano, dopo la comparsa sulla scena di una nuova associazione alternativa ad Aipac, la sigla che sinora ha rappresentato il mondo ebraico statunitense. Da quando è comparsa J Street, associazione progressista, nel mondo dei coloni sono aumentate le preoccupazioni. Soprattutto in concomitanza con la richiesta da parte della Lega Araba, agli Stati Uniti, di togliere le esenzioni fiscali a quelle associazioni che finanziano le colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Una battaglia, stavolta finanziaria, che potrebbe ulteriormente complicare il quadro.

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