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Lebanon, la guerra a nudo

Simone Esposito
15 settembre 2009
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<i>Lebanon</i>, la guerra a nudo

Il film Lebanon, che domenica 13 settembre ha vinto il Leone d'oro alla 66ma Mostra del cinema di Venezia, segna il debutto di Samuel Maoz come regista di cinema. La pellicola racconta il primo giorno della prima guerra del Libano (1982) attraverso gli occhi dei quattro carristi e la lente del loro periscopio. Lebanon è la dimostrazione che per fare un film contro la guerra non occorre essere ideologici, né perdere tempo a tracciare solchi tra sedicenti buoni e presunti cattivi.


«L’uomo è d’acciaio, il carrarmato è solo ferraglia»: è la scritta che campeggia sulla plancia del tank protagonista di Lebanon, che domenica 13 settembre scorso ha vinto il Leone d’oro alla 66ma Mostra del cinema di Venezia, primo film israeliano di sempre ad aggiudicarsi la rassegna lagunare. Ma i quattro occupanti del cingolato non sono d’acciaio, tutt’altro: sono giovani fabbricati in ordinarie carne, ossa e paura di morire, strappati alla loro vita di tutti i giorni e speranzosi soltanto di tornarvi il prima possibile.

È passando per i loro occhi che Samuel Maoz, al suo debutto alla regia cinematografica, racconta il primo giorno della prima guerra del Libano, alla quale lui stesso partecipò nel 1982. Attraverso gli occhi dei quattro carristi e attraverso la lente del loro periscopio: tutta la storia finisce inquadrata nel cerchio del mirino, mentre i giovani soldati scoprono, metro dopo metro nella loro avanzata libanese, che una cosa è sparare alle sagome dell’esercitazione di leva e un’altra spedire contro una casa abitata una bomba al fosforo («fumo ardente», come viene chiamata per mascherarne l’uso, vietato dalle convenzioni internazionali). Fino a rifiutare il peso insostenibile di decidere, gratuitamente, della vita e della morte degli altri.

L’artificio visuale del mirino è di grande impatto emotivo, e contribuisce alla costruzione dell’atmosfera soffocante che, dall’abitacolo del carro armato, deborda fino in sala e attanaglia il pubblico riducendolo a un silenzio profondo che dura anche dopo i titoli di coda, come è capitato all’anteprima romana del film (avendo trovato un distributore italiano soltanto dopo la proiezione a Venezia, il film arriverà nelle sale cinematografiche della penisola il 23 ottobre 2009).

Lebanon è la dimostrazione che per fare un film contro la guerra non occorre essere ideologici, né perdere tempo a tracciare solchi tra sedicenti buoni e presunti cattivi, né attardarsi sulle motivazioni geopolitiche che scatenano i conflitti: basta (si fa per dire) mostrare senza filtro ventiquattr’ore di operazioni. È quello che fa Maoz, con onestà, senza accanimenti, senza insinuazioni, senza eccessi. E la guerra si rivela per quello che è: sangue, fuoco, terrore, insensatezza. Un’esperienza da cui qualcuno esce morto, qualcun altro privo di senno, praticamente tutti privati di senso.

Il regista ha dedicato il premio «alle migliaia di persone nel mondo che tornano dalla guerra come me sani e salvi. Si sposano, hanno figli ma dentro i ricordi rimangono stampati nel cuore». «Il cinema ha dimostrato di essere divenuto negli ultimi anni il settore centrale della cultura israeliana», ha detto ancora Maoz, rispondendo alle domande dell’inviato dell’emittente del suo paese, Channel 1, che ha parlato di «successo stupefacente». Ma l’accoglienza della stampa nazionale non è stata unanimemente benevola, e sotto le accuse di un autore teatrale, Schmuel Hasfari, sono finiti persino tre degli attori protagonisti, Shmuel Moshonov, Itay Tiran e Oshri Cohen (il quarto è Yoav Donat), «rei» di aver indossato la divisa sul grande schermo ma di essere riusciti a evitare il servizio militare obbligatorio. La vittoria del Leone d’oro, però, è stata sottolineata con orgoglio praticamente da tutti i media israeliani.

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