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Blair: le religioni giochino un ruolo per la pace in Medio Oriente

31/08/2009  |  Roma
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Blair: le religioni giochino un ruolo per la pace in Medio Oriente

In un'intervista esclusiva a Terrasanta.net, Tony Blair dice che i leader religiosi dovrebbero giocare un ruolo più incisivo nel processo di pace in Medio Oriente e che, a determinate condizioni, anche Hamas ed Hezbollah dovrebbero essere associati ai negoziati. L'inviato del Quartetto (Onu, Usa, Unione Europea e Russia) per la pace in Medio Oriente, riconosce che l'esempio di san Francesco è anche per lui fonte di ispirazione. Osserva poi che per certi versi la pace in Terra Santa è più facile da raggiungere di quanto lo fosse quella in Irlanda del Nord. Blair si sofferma infine sulla possibilità di raggiungere un accordo di pace durante il mandato di un governo israeliano come quello di Benjamin Netanyahu.


In un’intervista esclusiva rilasciata a Terrasanta.net, Tony Blair dice che i leader religiosi dovrebbero giocare un ruolo più incisivo nel processo di pace in Medio Oriente e che, a determinate condizioni, anche Hamas ed Hezbollah dovrebbero essere associati ai negoziati.

L’inviato del Quartetto (Onu, Usa, Unione Europea e Russia) per la pace in Medio Oriente, riconosce che l’esempio di san Francesco è anche per lui fonte di ispirazione. Osserva poi che per certi versi la pace in Terra Santa è più facile da raggiungere di quanto lo fosse quella in Irlanda del Nord. Blair si sofferma infine sulla possibilità di raggiungere un accordo di pace durante il mandato di un governo israeliano come quello di Benjamin Netanyahu.

Blair ci ha incontrato a Rimini il 27 agosto scorso, mentre era ospite della trentesima edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli, organizzato da Comunione e Liberazione.

Signor Blair, quali sono le sfide e i progressi compiuti nello sviluppo economico della Cisgiordania che lei stesso ha sostenuto?
Di progressi ce ne sono stati. L’economia della Cisgiordania, secondo le valutazioni più recenti del Fondo monetario internazionale, registrerà probabilmente una crescita del 7 per cento quest’anno. È già cresciuta di oltre il 7 per cento nel primo trimestre del 2009. Visitanto la città di Nablus, alcune settimane fa, ho potuto constatare che la differenza è ben visibile ed è il risultato dell’accresciuta sicurezza che Salam Fayyad, il primo ministro (dell’Autorità palestinese), ha introdotto con l’aiuto degli americani, nostro e di altri. Ma è anche l’esito di un certo alleggerimento delle restrizioni da parte degli israeliani. Alcuni dei maggiori blocchi stradali sono stati tolti proprio negli ultimi mesi. D’altronde l’economia palestinese potrebbe crescere con percentuali doppie rispetto alle attuali se facessimo veri progressi politici e cominciassimo a eliminare in modo determinante le restrizioni alla libertà di movimento. Quindi la risposta è: abbiamo fatto progressi, ci sono segnali positivi, ma resta ancora molta strada da fare.

Sta esercitando molta pressione, attraverso canali diversi, per ottenere un alleggerimento di quelle restrizioni?
Sì. Ora conosco molte più cose sul numero di corsie, sui precisi tipi di restrizioni e sui vari blocchi stradali in Cisgiordania di quanto avrei mai immaginato di dover apprendere. Tutte cose che fanno una grande differenza. Ad esempio, come risultato di un blocco stradale che viene aperto un viaggio che prima poteva richiedere due ore e mezza o tre adesso dura solo 45 minuti. Una differenza enorme per chi fa affari, per non parlare della gente comune. Dunque ci sono miglioramenti, ma la prima cosa che i palestinesi ci direbbero è: «Ora va certamente meglio e ci sono stati mutamenti significativi negli ultimi due anni, ma si può fare ancora di più».

Da più parti si dice che l’istruzione è il più  importante elemento di sviluppo nella regione. State dedicandole una parte consistente delle nuove risorse economiche?
Effettivamente raccogliamo fondi da destinare all’istruzione e c’è un programma di riforma dell’istruzione palestinese che riguarda tanto il cambiamento dei programmi scolastici quanto il miglioramento delle strutture. Anche qui ci sono cose che possono essere migliorate. A dire il vero, tradizionalmente la Palestina ha avuto un sistema educativo piuttosto buono, ma si può fare ancora meglio. L’aspetto chiave è che quando abbiamo raccolto circa 5 miliardi di dollari per l’Autorità palestinese nella Conferenza di Parigi sul finire del 2007, l’abbiamo fatto per la prima volta a fronte di un programma di cambiamento, di riforme e di creazione delle istituzioni locali. La mia teoria a riguardo è che il conflitto non può essere risolto soltanto con negoziati dall’alto in basso. Bisogna costruire a partire dal basso. In altre parole il punto è questo: non ci sarà alcuno Stato palestinese se Israele non si sentirà sicura che sia ben amministrato e governato. Se gli israeliani dovessero convincersi che quello che accade a Gaza potrebbe ripetersi in Cisgiordania, non c’è alcuna possibilità che i negoziati abbiano successo. Perciò queste questioni pratiche sono molto più determinanti di quanto un osservatore esterno possa pensare.

Che importanza riveste la religione nel processo di pace? Ritiene che i leader religiosi debbano giocare un ruolo più significativo nella costruzione della pace nella regione?
Sì, sono convinto che dovrebbero giocare un ruolo più significativo. Il fatto è che non si può risolvere una questione come quella di Gerusalemme semplicemente con negoziati politici. Richiede quanto meno la buona volontà delle comunità dei credenti e tutto il meglio che è in loro potere per aiutare a promuovere la riconciliazione giocando un ruolo positivo.

Considera rilevante il ruolo dell’Ordine francescano, in particolare, nel far crescere la pace dal basso?
Sì, certamente. A Gerusalemme uno vede le varie fedi coabitare letteralmente fianco a fianco. Così a chi mi dice che la questione (israelo-palestinese) non ha nulla a che vedere con la religione, io rispondo che invece ha proprio a che fare con la religione, perché la religione è parte del contesto e del retroterra su cui il conflitto si è innestato. Un impegno in tal senso sarebbe di enorme aiuto. Nel complesso le Chiese giocano un ruolo molto positivo. Se i rabbini, gli imam e i preti lavorano insieme si hanno migliori possibilità di giungere a una soluzione.

San Francesco e il suo esempio sono stati di ispirazione per lei?
Sì, assolutamente. Quel genere di messaggio ha certamente un suo posto. E lo ha anche tra le persone che non condividono necessariamente il nostro credo.

Quanto è ottimista sulla possibilità che si vada verso la soluzione dei due Stati ora che in Israele c’è un governo, come quello di Netanyahu, che incarna la linea dura? Molti ritengono che si riducano le possibilità di arrivare alla pace.
Ci sono sempre due modi di guardare alla questione. Il primo è che avendo al governo l’ala dura non si raggiungerà alcun accordo. L’altro modo è che proprio perché c’è un governo intransigente si può arrivare a un accordo.

Insomma, lei è fra quelli che pensano che solo uno come Nixon poteva andare in Cina?
Ripeto spesso che l’esempio da guardare è quello di «Nixon che va in Cina». La cosa importante è che lui abbia rotto gli indugi e sia partito. Non so se mi spiego. Sono propenso a credere che nelle circostanze opportune Netanyahu sottoscriverebbe un accordo. Da quanto ho colto nei miei colloqui con lui, la sua inquietudine non è altro che l’espressione verbale dell’inquietudine israeliana, che pensa: se non possiamo essere certi che almeno in questa piccola porzione di terra ci sia una genuina base per la pace, allora è difficile che due Stati possano convivere. Per questo è essenziale che con la pace vengano risolte tutte le questioni pendenti. Che ciò venga fatto, perché deve essere fatto, su una base che consenta ai palestinesi di avere uno Stato indipendente e fattibile e agli israeliani di ottenere garanzie per la sicurezza del loro Stato.

Si è detto che Hamas ed Hezbollah dovrebbero essere coinvolti nel processo di pace. Lei è favorevole in qualche modo al loro coinvolgimento nei negoziati?
Sarebbe certamente meglio includerli; averli dentro il contesto palestinese come parte del processo. Il problema è che è difficile coinvolgerli a meno che non accettino di lavorare con noi per un unico obbiettivo. Per questo i princìpi posti dal Quartetto dicono che in assenza di un chiaro impegno alla non violenza come mezzo per raggiungere i propri fini, e se non si è d’accordo nel lavorare per la soluzione dei due Stati, diventa difficile pensare di coinvolgere anche loro. Possiamo riassumere così: le divisioni nella politica palestinese sono un’inibizione. Sarebbe meglio superarle, ma le si potrà superare solo quando ci sarà un accordo di fondo sui princìpi che governano il processo (di pace).

Nel corso della sua recente visita a Londra Netanyahu ha detto che l’allargamento degli insediamenti è giusto, nel senso che non si vuole altro che gli israeliani in Giudea e Samaria possano vivere «vite normali». Cosa ne pensa?
La questione degli insediamenti è molto complessa e difficile. Ma essenzialmente il discorso è questo: la comunità internazionale vuole evitare che si costruiscano insediamenti su quello che sarà quasi certamente territorio palestinese di uno Stato palestinese. Se Israele espande gli insediamenti su aree che con tutta probabilità saranno sotto sovranità palestinese ciò renderà molto più difficile raggiungere un accordo. Adesso c’è la tesi dagli israeliani secondo i quali le comunità (degli insediamenti) hanno bisogno di strutture per l’infanzia e per l’assistenza sanitaria. Così nascono discussioni complicate. Il punto essenziale resta il desiderio fondamentale che nessuno faccia qualcosa che indebolisca la prospettiva di un accordo. Personalmente credo che la cosa più importante sia far ripartire i negoziati, perché naturalmente prima si decidono i confini del territorio dello Stato e prima si chiarisce la questione degli insediamenti.

Dunque lei è ottimista riguardo alla possibilità di vedere con i suoi occhi il giorno in cui si raggiungerà la pace?
Certamente. Sono per natura un ottimista e credo che potremmo giungere alla pace. Se poi ci riusciremo… È sicuramente una sfida, ma se i popoli vogliono la pace sapranno anche raggiungerla, perché la base per la pace è perfettamente comprensibile ed è appunto l’idea dei due Stati. Nell’Irlanda del Nord tutto era ancora più difficile, perché non c’è mai stato accordo sulla soluzione finale: un Regno Unito o un’Irlanda unita? Il processo di pace ha saputo gestire il disaccordo, anche se in definitiva non lo ha risolto. In certa misura questo processo di pace è più semplice perché c’è accordo sulla soluzione dei due Stati. Tutto ora dipende dalla volontà. Ma io credo fortemente che quello che abbiamo perso negli ultimi anni è la credibilità del processo (di pace). Non è venuto meno, invece, il desiderio ultimo, sia da parte israeliana sia palestinese, di giungere a un accordo.

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