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Obama ha parlato. E ora?

05/06/2009  |  Milano
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Obama ha parlato. E ora?
Barack Obama durante il suo discorso del 4 giugno 2009 all'Università del Cairo. (foto White House/Chuck Kennedy)

Da tutto il Medio Oriente piovono commenti sul discorso pronunciato il 4 giugno dal presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, al Cairo. Parole evidentemente molto importanti: probabilmente non a torto questa volta è stato utilizzato l'aggettivo «storico». Proviamo, però, ad andare oltre la retorica e a capire quali sono le novità vere di questo passo compiuto dal presidente americano. E domandiamoci quali svolte concrete si prospettano sul terreno.


Da tutto il Medio Oriente piovono commenti sul discorso tenuto da Barack Obama al Cairo. Parole evidentemente molto importanti: probabilmente non a torto questa volta è stato utilizzato l’aggettivo «storico». Proviamo, però, ad andare oltre la retorica e a capire quali sono le novità vere di questo passo compiuto dal presidente americano.

La prima la sottolinea bene nel suo editoriale il quotidiano saudita Arab News: Obama è piaciuto agli arabi perché ha parlato chiaro. Finalmente – commenta il quotidiano di Riad – in Medio Oriente un discorso di un leader che non ha bisogno dell’immancabile spin doctor per interpretarlo. Certo, c’è stato anche chi – all’opposto – ha commentato che al Cairo abbiamo visto lo show in stile Hollywood; mentre i discorsi seri con Obama li si farà nelle segrete stanze. Credo che sia un’analisi sbagliata. Obama si è pronunciato su tutte le questioni calde oggi aperte in Medio Oriente: il conflitto israelo-palestinese, ma anche l’Iran, l’Iraq, l’Afghanistan. E dopo gli auguri inviati a Teheran per il capodanno persiano e il discorso di Ankara, ancora una volta ha parlato direttamente alla gente comune del mondo arabo. In altre parole sta facendo i conti con la grande sfida del consenso di cui parlavano la settimana scorsa a proposito delle elezioni libanesi. E questo è una novità fondamentale.

Secondo aspetto: rispetto al tema del conflitto israelo-palestinese, che cosa ha detto di nuovo Barack Obama al Cairo? Assolutamente nulla. Sono anni che a parole le amministrazioni americane dicono che i palestinesi devono smetterla con la violenza e che Israele deve fermare gli insediamenti. E nel passaggio su Hamas Obama ha persino ripetute tali e quali le tre famose condizioni del Quartetto: fine della violenza, riconoscimento degli accordi, riconoscimento dello Stato d’Israele. Dov’è allora la differenza? Lo spiega bene Yediot Ahronot: questa volta non sono più solo parole, ma c’è un’amministrazione americana a inizio mandato che ha deciso di fare sul serio. E la cartina di tornasole è la questione degli insediamenti: Washington non si limita a esprimere un concetto generale, ma stavolta tiene sotto controllo le gare d’appalto. Così il governo Netanyahu sente il fiato sul collo. Questa è la differenza rispetto agli anni dell’era Bush, che si diceva contrario ai nuovi insediamenti ma poi, giocando con le parole sulla «crescita naturale» di quelli vecchi, ha lasciato che per otto anni i coloni in Cisgiordania crescessero al ritmo di diecimila all’anno.

Terzo aspetto: conta sì il carisma di Obama, ma contano anche gli uomini che si è scelti intorno. Il personaggio fondamentale, di cui si parla ancora troppo poco, è George Mitchel, l’inviato speciale del presidente per il Medio Oriente. È uno che i nodi del conflitto li conosce a menadito e sa distinguere bene che cosa è sostanziale (cioè i famosi «fatti sul terreno» che peseranno sul futuro dell’area) e che cosa invece è solo propaganda. Il giorno che l’Europa metterà in campo a Gerusalemme qualcuno del genere forse conterà qualcosa di più. È interessante, però, il fatto che il quotidiano libanese The Daily Star – che non è affatto un giornale filo-americano – nel suo editoriale tessa l’elogio anche di Rahm Emmanuel, il capo dello staff del presidente Usa, che è di origini ebraiche. «Senza Emmanuel – scrive -, le cui simpatie filo-israeliane sono fuori discussione, Obama non sarebbe in grado di affrontare la lobby filo-israeliana sia sui palestinesi sia sull’Iran. Emmanuel li ha sfidati dicendo: proponeteci un piano migliore o state zitti». Vale la pena di ricordare che quando Obama nominò Emmanuel come capo del suo staff tutte le voci filo-arabe avevano intonato il solito coro sulla «lobby ebraica che così lo avrebbe ingabbiato». Questo tanto per dire quanto gli stereotipi alla fine rendano spesso ciechi di fronte alla realtà.

Ultima osservazione: e adesso? Ci si può aspettare davvero una svolta in Medio Oriente? Non bisogna farsi illusioni: lo Stato palestinese non è dietro l’angolo. Anche perché – nella situazione di oggi – i palestinesi stessi non sono in grado di costruirlo. Però Obama sta facendo quello che più volte avevamo indicato come l’unico passo realistico oggi: salvare la possibilità che, almeno in un futuro non troppo lontano, si possa costruire lo Stato palestinese. Il blocco degli insediamenti serve a questo ed è l’unico passo oggi alla portata. Ma non è un passo facile: il Jerusalem Post racconta che i coloni hanno già ricostruito gli outpost (gli insediamenti «illegali» anche per la legge israeliana) che erano stati smantellati la settimana scorsa, come gesto di «buona volontà» da parte di Netanyahu. Un nuovo outpost l’hanno provocatoriamente chiamato la «collina di Obama», tanto per dire quanto abbiamo intenzione di piegarsi al volere di Washington. A raffreddare ulteriormente gli entusiasmi nel giro di pochi giorni potrebbero poi arrivare la vittoria di Hezbollah nelle elezioni libanesi (7 giugno) e la riconferma di Ahmadinejad come presidente a Teheran (12 giugno). Che – nell’opinione pubblica israeliana – non sarebbero certo percepite come notizie rassicuranti. Se però sugli insediamenti gli Stati Uniti mantengono comunque la fermezza che hanno dimostrato in queste settimane, almeno un effetto è sicuro: a Gerusalemme il governo Netanyahu ha i mesi contati. Perché il premier israeliano a quel punto dovrà scegliere: o scarica l’ultra-destra dei coloni o va all’isolamento internazionale. Secondo me è molto più probabile la prima ipotesi, con Kadima che è già pronta a rientrare dalla finestra.

Clicca qui per leggere l’articolo di Arab News
Clicca qui per leggere l’articolo di Yediot Ahronot
Clicca qui per leggere l’editoriale di The Daily Star
Clicca qui per leggere l’articolo del Jerusalem Post

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