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Il piccolo mondo di Ain Arik

16/04/2009  |  Ramallah
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Il piccolo mondo di Ain Arik
Una monaca della Piccola famiglia dell'Annunziata conversa con due bambine del villaggio palestinese di Ain Arik. Sullo sfondo il minareto.

Breve incursione nella realtà di Ain Arik, un villaggio palestinese di circa 1.700 abitanti alle porte di Ramallah. «Ciò che distingue Ain Arik è la secolare convivenza tra musulmani e cristiani», spiega padre Giovanni, del locale convento della Piccola Famiglia dell'Annunziata, una comunità religiosa di tipo monastico fondata una cinquantina di anni fa da Giuseppe Dossetti. Padre Giovanni, sguardo sereno e accento bolognese che alterna a un arabo perfetto, è ad Ain Arik dal 1989 e ci aiuta a conoscere il profilo di questo agglomerato umano.


Alla moschea di Ain Arik, villaggio di circa 1.700 persone nei pressi di Ramallah, c’è il minareto più alto della Cisgiordania dal quale, a un certo punto, pare uscire il suono delle campane. È solo un buffo effetto sonoro, che tuttavia potrebbe anche rappresentare la realtà, visti gli ottimi rapporti tra la chiesa e la moschea del villaggio.

«Ciò che distingue Ain Arik è infatti la secolare convivenza tra musulmani e cristiani», conferma padre Giovanni, del locale convento della Piccola Famiglia dell’Annunziata, una comunità religiosa di tipo monastico fondata una cinquantina di anni fa da Giuseppe Dossetti. Padre Giovanni, sguardo sereno e accento bolognese che alterna ad un arabo perfetto, è ad Ain Arik dal 1989 assieme a pochi fratelli e sorelle che compongono la famiglia, guida spirituale della comunità cristiana del villaggio, composta da un terzo degli abitanti e suddivisa a sua volta in ortodossi, la maggioranza, e cattolici, circa 150 persone.

Fedeli alla regola dell’Ora et labora, l’attività delle sorelle e dei fratelli è incentrata sulla preghiera, senza disdegnare però l’ufficio per la comunità. La chiesa è stata edificata negli anni Quaranta, ma i primi battesimi registrati risalgono alla fine dell’Ottocento. Prima della costruzione della chiesa veniva un prete da Ramallah a celebrare la messa settimanale in una casa privata. «I cristiani del villaggio sono stati abbandonati per anni, e questa è forse una delle ragioni della loro tiepida partecipazione alla vita religiosa», riflette padre Giovanni.

A ciò si aggiungono i problemi della vita, che sono gli stessi di tutti i palestinesi, cristiani e musulmani: in primis mancanza di lavoro dovuta all’occupazione che impedisce la mobilità, anche se al villaggio non c’è miseria. Gli uomini possono cercare lavoro nelle zone circostanti, soprattutto a Ramallah, «ma c’è molta competizione», annota ancora il padre. «I lavoratori edili di Ain Arik si lamentano di quelli che vengono dalle aree più povere, come Jenin, che arrivano, si accampano in tende o camion e offrono manodopera a un costo inferiore». Le leggi del mercato del lavoro sono uguali dappertutto, come simili sono le convenzioni che influenzano il lavoro femminile: gran parte delle donne del villaggio non lavora perché le tradizioni non lo permettono. «Una delle ragazze della nostra parrocchia – spiega il monaco – ha preso il diploma di segretaria e ha trovato lavoro, ma il padre non ha voluto che andasse in ufficio dove c’erano anche degli uomini».

Le cose comunque piano piano stanno cambiando, da questo punto di vista e non solo. «Quando sono arrivato – ricorda padre Giovanni – era in corso la prima intifada; i soldati israeliani avevano una postazione qui, c’erano il coprifuoco e la guerriglia. Poi siamo passati alla breve fase della speranza, dopo la conferenza di Madrid (ottobre-novembre 1991 – ndr): ricordo che in quei giorni passava perfino qualche macchina di ebrei, poche in realtà, con le bandiere palestinese e israeliana fuori dal finestrino». Lo sguardo di padre Giovanni si perde nei ricordi e poi si fa cupo: «Ora non è più così, specialmente dopo la guerra di Gaza del dicembre-gennaio scorso, che il villaggio ha vissuto con molto dolore e un accresciuto astio contro Israele».

Ain Arik è particolare anche perché non è stato lacerato dalle lotte interne ai partiti palestinesi: la maggioranza è di Fatah, ma ci sono anche famiglie di Hamas e il clima non è teso. «Gli uomini di Hamas trattano bene anche noi monaci» ci spiega ancora padre Giovanni, che ricorda quando un anno fa Hamas organizzò un campo estivo per i bambini e, non avendo uno spazio abbastanza grande, usufruì del cortile della chiesa messo a disposizione dai monaci. «Proprio qualche giorno fa è stato liberato un prigioniero di Hamas e, come di consueto, sono andato a fargli visita. Beh, sono stato accolto con grande calore», sorride padre Giovanni. Insomma Ain Arik, nel suo piccolo, potrebbe essere preso a modello di convivenza tra fedi e posizioni diverse, una dimostrazione che ciò non è impossibile.

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