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Chi viene e chi va

13/03/2009  |  Milano
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Chi viene e chi va
Il primo ministro dimissionario Salam Fayyad (a destra) con il presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen).

Nel giro di un paio di settimane, a Gerusalemme e a Ramallah avremo due nuovi governi. E queste sono le ore in cui si vanno definendo gli assetti. Guardando la situazione da lontano molti hanno l'impressione che il Medio Oriente stia facendo non uno ma ben due passi avanti verso il precipizio. Due articoli usciti in queste ore su Arab News e sul Jerusalem Post ci possono forse aiutare a capire dall'interno quello che sta succedendo. E quali sono i rischi, ma anche le opportunità di questa situazione.


Nel giro di un paio di settimane, a Gerusalemme e a Ramallah avremo due nuovi governi. E queste sono le ore in cui si vanno definendo gli assetti. Guardando la situazione da lontano molti hanno l’impressione che il Medio Oriente stia facendo non uno ma ben due passi avanti verso il precipizio. Due articoli usciti in queste ore ci possono forse aiutare a capire dall’interno quello che sta succedendo. E quali sono i rischi, ma anche le opportunità di questa situazione.

Partiamo dalla situazione palestinese, che è quella che conosciamo di meno. Sabato scorso si è dimesso Salam Fayyad, il premier nominato d’autorità nel 2007 dal presidente Abu Mazen. Un capo di governo privo di alcuna legittimazione popolare, scelto in una situazione di emergenza nel pieno della guerra civile con Hamas. Ora Fayyad si è dimesso e questo è il segnale che la mediazione egiziana al Cairo per un governo di unità nazionale palestinese sta andando molto avanti. Non vuol dire che il governo sia già fatto (quando si parla di questioni palestinesi gli accordi sono sempre tutti da verificare…). Però c’è un consenso di massima sull’idea di un governo di garanzia che porti i Territori e Gaza a nuove elezioni sia legislative sia presidenziali, da tenersi nel gennaio 2010. Come mai adesso, con tutti i problemi che hanno, a questi viene anche la «fregola» di votare? Per un motivo molto semplice: perché in Palestina non c’è più alcuna autorità sancita da un mandato popolare. L’Assemblea nazionale – il Parlamento palestinese –  dal 2007 ha più di metà dei deputati nelle carceri israeliane e quindi non viene più convocato. Il «governo» di Hamas a Gaza è un governo che ha preso il potere con la forza. E il mandato del presidente Abu Mazen è scaduto nel gennaio scorso. Dunque: o postuliamo che la democrazia non va bene per i palestinesi o lì il primo passo per riportare ordine (anche a Gaza) è indire delle elezioni. Certo – visti i risultati del 2006 – il solo pensiero a molti in Occidente fa venire l’orticaria. Ma il punto è che non ci sono altre strade. E allora – questa volta – la comunità internazionale farebbe probabilmente bene a non ostacolare il percorso verso questo governo di unità nazionale, ma cercare di trarre i vantaggi che da questa situazione possono venire. Ad esempio: cercare di sfruttare questa situazione per tornare a giocare un ruolo politico nelle questioni palestinesi. Offrendo al nuovo governo una prospettiva non tanto su un obiettivo lontano come i due Stati, ma su obiettivi più vicini e più concreti: la situazione a Gaza, il blocco degli insediamenti, le condizioni quotidiane di vita nei Territori…

Dall’altra parte il governo di unità nazionale è anche per i palestinesi l’occasione per andare oltre questo scontro tra Fatah e Hamas, che alla fine riduce a una caricatura una società in realtà molto più complessa. È molto interessante a questo proposito l’articolo che rilanciamo: è un editoriale del quotidiano saudita Arab News che, per un ruolo di rilievo nel nuovo governo, suggerisce esplicitamente il nome di Hanan Hasrawi, donna, arabo cristiana, già membro della delegazione che negli anni Novanta partecipò alla Conferenza di Madrid. Non stupisce che l’articolo sia stato subito rilanciato dal sito palestinese Miftah, che ha proprio la Hasrawi tra i suoi promotori. Sono nomi come questi gli unici che possono sbloccare la situazione. Perché di fronte a un governo con ministri come Hanan Ashrawi sarebbe un po’ difficile classificarlo come il governo di Hamas.

Passando a Israele, teoricamente entro mercoledì Netanyahu dovrebbe presentare il governo, ma è molto probabile che chieda al presidente Peres le due settimane di «tempi supplementari» previsti dalla legge israeliana. Comunque la fisionomia del governo è abbastanza chiara: il ministero dell’Economia nelle mani di Netanyahu stesso, l’Educazione e il potentissimo ministero dell’Edilizia ai partiti religiosi, e soprattutto Lieberman agli Esteri. Su questo ultimo punto ci si è già cominciati a stracciare le vesti. Personalmente non credo sia una reazione molto intelligente. Lo scrivevamo già alla vigilia delle elezioni: Yizrael Beitenu, il partito di Lieberman, è un fenomeno serio con cui d’ora in poi dovremo abituarci a fare i conti. Lo dice molto bene l’articolo del Jerusalem Post che rilanciamo qui sotto. Dipingerlo come il razzista xenofobo e basta non aiuta a capire. Yizrael Beitenu ha un suo programma che – in politica estera – non è poi così diverso da quello che avevano i governi guidati da Sharon (non a caso lo ha scritto Danny Ayalon, che in quegli anni era l’ambasciatore di Israele a Washington). Lieberman ha tutte le carte in regola per fare il ministro degli Esteri. Il problema è piuttosto un altro: se Lieberman diventa ministro degli Esteri bisognerà cominciare a fare i conti davvero con la sua politica. E dire con chiarezza che su alcune cose la comunità internazionale è d’accordo, ma su altre no. E su quelle su cui non si è d’accordo (vedi ad esempio l’espansione massiccia degli insediamenti nei Territori) la politica dovrà mettere in campo tutti i suoi strumenti di pressione per fermare Israele. Sharon – che era un grande tattico – aveva messo al ministero degli Esteri Shimon Peres, che gli permetteva di perseguire la sua politica ma  mantenendo allo stesso tempo un’immagine rassicurante per la comunità internazionale. Netanyahu voleva fare la stessa cosa con Tzipi Livni, che però ha risposto picche. Quindi adesso con Lieberman al ministero degli Esteri non ci sarà più nessuna maschera. Non è detto che sia così un male.

Clicca qui per leggere l’articolo di Arab News

Clicca qui per leggere l’articolo del Jerusalem Post

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