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Ha vent’anni il rock made in Israel

27/02/2008  |  Milano
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Ha vent’anni il rock<i> made in Israel</i>
Istantanea da un concerto di Ehud Banai.

Quella mattina di vent'anni fa il giovane Uzi Preuss, oggi direttore della divisione ebraica della casa discografica Nmc, non poteva credere alle sue orecchie. La radio stava mandando un pezzo di rock israeliano. Era il 1987 ed era appena uscito Ehud Banai e i rifugiati, un album che segnò una svolta nella storia della musica rock israeliana, assottigliando il divario con il rock inglese e quello americano.


Quella mattina di vent’anni fa il giovane Uzi Preuss, oggi direttore della divisione ebraica della casa discografica Nmc, non poteva credere alle sue orecchie. La radio stava mandando un pezzo di rock israeliano. Era il 1987 ed era appena uscito Ehud Banai e i rifugiati, un album che segnò una svolta nella storia della musica rock israeliana, assottigliando il divario con il rock inglese e quello americano.

Il musicista David Peretz ricorda l’uscita dell’album di Ehud Banai come un evento chiave nella sua vita. «È stata forse la prima volta che ho sentito della musica israeliana che parlava a me e non alle mie vecchie zie – ha spiegato al giornale online Haaretz.com – finalmente sentivamo di essere al passo coi tempi, in linea con ciò che stava accadendo anche all’estero. Ed è stato un grande cambiamento di mentalità. Qualcosa si stava per chiudere e qualcosa di nuovo stava per cominciare».

Da quel momento in poi è stato un fiorire di artisti e di produzioni rock come Cenere e polvere, l’album di Yehuda Poliker, Tales from the Box di Rami Fortis e Berry Sakharof, Frutto proibito di Corinne Allal e Gli Amici di Natascia, il primo album dell’omonimo gruppo.

A distanza di vent’anni c’è ancora oggi una grande nostalgia per quegli anni gloriosi che cambiarono per sempre la musica israeliana. Ma quale fu il clima che portò alla nascita di quell’album spartiacque? A rispondere è Aran Denier, esperto di musica israeliana, sempre su Haaretz.com: «In quegli anni sia il pubblico sia i musicisti stavano compiendo un percorso parallelo. Il pubblico cominciava ad essere sazio del suono mastodontico e artificiale degli anni Ottanta. La gente voleva un nuovo tipo di musica spinta da una sorta di ribellione. Contemporaneamente c’è stata la maturazione di tanti giovani musicisti, molto attivi fin dai primi anni Ottanta».

Coloro che cominciarono a fare musica in quegli anni non potevano che rimanere influenzati dalla musica straniera diffusa attraverso le radio e le televisioni. Gli album come Ehud Banai e i rifugiati e Cenere e polvere traevano in larga misura il loro suono dalle influenze americane e inglesi, ma tali opere non sarebbero state così risonanti se non fossero state in grado di toccare le radici dell’esperienza israeliana. Poliker raccontava il dramma della seconda generazione dei sopravissuti all’Olocausto, Banai descriveva la gente invisibile che viveva ai margini della società israeliana.

Anche l’industria musicale registrò questa inversione di tendenza: fino alle metà degli anni Ottanta la gente acquistava più dischi stranieri di quelli israeliani, poi non fu più così. Se la generazione precedente si identificava nei Pink Floyd e nei Beatles, dalla fine degli anni Ottanta i giovani cominciarono ad ascoltare la musica israeliana e a considerarla come la vera colonna sonora della loro vita.

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