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Presidenziali, il Libano a un pericoloso bivio

Camille Eid
10 settembre 2007
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Crescono i timori di un pericoloso vuoto istituzionale in Libano man mano che si avvicina la scadenza elettorale presidenziale, prevista entro novembre. Il banco di prova si avrà a partire dal 25 settembre, quando si terrà la prima riunione dei deputati. Il Parlamento di Beirut non viene convocato da diversi mesi per deliberata decisione del suo presidente Nabih Berri, che guida uno dei principali partiti dell’opposizione. Si tratta ora di sapere se Berri e i suoi alleati di Hezbollah e del blocco parlamentare del generale Michel Aoun saranno presenti alla votazione.

La condizione sine qua non posta da questi partiti per un’elezione pacata è nientemeno l’elezione di un presidente neutrale, ossia non appartenente alla maggioranza. La Costituzione libanese precisa che al primo turno il candidato alla presidenza debba ottenere i due terzi dei voti. Con solo 69 su 128 seggi, la maggioranza al governo non può da sola superare l’ostacolo e procedere con la votazione. Piuttosto che il «vuoto» qualcuno avanza l’idea di passare al secondo turno, dove è prevista semplicemente la maggioranza relativa. Una sfida, questa, alla quale l’opposizione minaccia di rispondere con il rifiuto di riconoscere il nuovo presidente e addirittura con la formazione di un governo parallelo. In altre parole, il Libano si dividerà in due e rischierà di sprofondare nuovamente nella guerra civile.

Un simile scenario avrà delle gravi ripercussioni sui cristiani libanesi. Un test sul consenso di cui godono i diversi partiti «cristiani» lo si è avuto lo scorso 5 agosto, quando si sono svolte delle elezioni suppletive nel distretto a maggioranza cristiana del Metn. I risultati rispecchiavano la divisione del campo cristiano tra i due schieramenti rivali in maniera eloquente: metà e metà. Dal voto è quindi emerso un affievolimento della pretesa di Aoun di rappresentare, come alle elezioni del 2005, il «70 per cento del voto cristiano». Sebbene abbia perso le elezioni, la maggioranza ha salutato il ritorno all’ovile di buona parte dei cristiani. Per alcuni, ciò significa che molti cristiani considerano l’intesa siglata nel febbraio 2006 tra Aoun e Hezbollah «contro natura». Per Aoun, invece, sia l’intesa sia la «vittoria» elettorale, gli conferiscono un consenso al di là dei confini maroniti e fanno di lui un valido candidato alle presidenziali.

In verità, l’ex generale trae vantaggio dalle divisioni dei suoi rivali. Fino a oggi (ma tutto può cambiare) le «Forze del 14 marzo» non si sono accordate su una sola candidatura. Anzi, si conoscono già i nomi di almeno tre candidati maroniti (cui spetta, per tradizione, la carica presidenziale): Boutros Harb, Nassib Lahoud e Robert Ghanem. E probabilmente si farà presto avanti anche l’ex presidente Amin Gemayel. Quale tra questi nomi sarà il nuovo presidente non ci è dato sapere, perché l’importante è ora salvare la Repubblica e la stessa esistenza del Libano. Accusare Aoun di essere poco gradito tra i maroniti (il suo candidato alle elezioni del Metn ha raccolto il 43 per cento dei voti della comunità) e Gemayel di aver perso nel proprio feudo, significa bruciare i candidati più autorevoli.

I cristiani devono trarre lezione dallo scrutinio, riconoscere che nessun leader ha il monopolio della rappresentatività cristiana e che le contraddizioni tra due campi che, tutto sommato, si dichiarano «difensori della sovranità libanese» non fanno altro che indebolirli tutti. Solo «unendosi» la comunità cristiana libanese, e la sua componente maronita in particolare, potrà giocare di nuovo il suo ruolo fondamentale senza il quale il Libano perderebbe la sua ragion d’essere, la sua vocazione di nazione pluralista aperta al mondo e la sua specificità che ne fa un’eccezione in un Medio Oriente dominato dagli autoritarismi.

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