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Cristiani (e non) nella trappola irachena

Camille Eid
11 luglio 2007
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Quattro martiri si sono aggiunti al lungo tributo di sangue che la Chiesa d’Iraq offre da secoli. Si tratta di padre Ragheed Ganni e dei suoi tre suddiaconi Basman Daud, Wahid I sho e Ghassan Bidawid, assassinati a sangue freddo il 3 giugno a Mosul, al termine della celebrazione domenicale. Sale così a una decina il numero di consacrati uccisi o sequestrati in Iraq in meno di un anno. Prima di loro, era stato barbaramente ucciso, nell’ottobre dell’anno scorso, il sacerdote siro-ortodosso Boulos Iskander Bahnam, ritrovato con la testa e le braccia mozzate dopo tre giorni di sequestro da parte di un gruppo sconosciuto che aveva inizialmente chiesto un ingente riscatto per la sua liberazione. La mattina del 4 dicembre era stato rapito padre Sami Abdul-Ahad al-Rayyis, rettore del seminario caldeo maggiore di Baghdad, liberato dopo sei giorni. Una settimana prima, era stato sequestrato per nove giorni padre Douglas al-Bazi, parroco caldeo di Sant’Elia.

«Colpisci il pastore e le pecore si disperderanno», diceva una profezia veterotestamentaria (Zaccaria 13,7). E questa sembra essere l’intenzione delle bande di assassini: costringere i cristiani a mollare, ad abbandonare una terra in cui risiedono dall’alba del cristianesimo. L’impatto dell’uccisione dei pastori è infatti immenso sui fedeli. «Siamo consci della nostra missione – ci dice un profugo iracheno incontrato a Damasco -, ma quando non sfuggono al massacro nemmeno i preti, come possiamo sperare di avere rispetto per la nostra vita, noi poveri fedeli? Le nostre autorità religiose non hanno i mezzi per proteggere se stesse. Figurati se possono proteggere noi!».

La constatazione è terribile. Scoraggiati ed estenuati, i cristiani dell’Iraq non si riconoscono più nel proprio Paese. Agli assassini, i sequestri, e attacchi contro gli edifici religiosi si aggiungono, infatti, le umiliazioni quotidiane. Si moltiplicano, infatti, le testimonianze che parlano di gravi minacce e intimidazioni. In alcuni quartieri della capitale irachena, alcune milizie impongono alle donne cristiane di indossare il velo islamico quando escono di casa. «Ogni donna scoperta è un’adultera», ammoniscono nei loro comunicati. A Baghdad e Mosul, inoltre, diversi cristiani hanno denunciato di essere stati invitati a recarsi in una moschea per versare la jizya, ossia l’imposta prevista dal Corano a carico dei non musulmani, in cambio della protezione. Il versamento, asseriscono i testimoni, è presentato come un «contributo al jihad».

Di questo dramma vissuto dai discendenti dell’antica Chiesa di Babilonia parla mons. Jean Benjamin Sleiman, arcivescovo latino di Baghdad, nel suo recente libro Dans le piège irakien («Nella trappola irachena», Presses de la Renaissance, 2006 Parigi). Mons. Sleiman, di origine libanese, testimonia una sofferenza che vive dal di dentro. Una sofferenza che non vogliamo che diventi una morte in silenzio. I decenni di guerra, l’embargo, le speranze abortite di libertà promessa dagli americani, poi l’emergenza di un terrorismo cieco costituiscono oggi la pesante realtà irachena. «Parlo di trappola – dice Sleiman – perché mi sono reso conto che tutti i protagonisti si trovano ormai di fronte a una via senza uscita. Le minoranze cristiane e non sono intrappolate nella paura, sequestrate nel loro Paese. Ma anche gli americani danno l’impressione di essere finiti nella trappola visto che si trovano di fronte a una scelta difficile: o uscire dall’Iraq e perdere tutto, o continuare sperando di realizzare una vittoria affrontando una violenza che non dà ancora segni di stanchezza».

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