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Filippini in Terra Santa. Il racconto di tre donne

08/06/2007  |  Gerusalemme
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Continua il nostro viaggio all'interno delle comunità di lavoratrici filippine immigrate in Israele. Incontriamo Felisa, Jean e Lesandra, che, in una conversazione a più voci, ci narrano fatiche, soddisfazioni e speranze. Dalle loro parole emerge tanta solidarietà e anche qualche riflessione critica sull'esperienza che stanno vivendo. In patria arrivano ingenti flussi di denaro ma i costi sociali che le famiglie pagano sono alti.



Felisa, Jean e Lesandra sono tre emigrate filippine che hanno trovato lavoro in Israele. A Gerusalemme fanno parte della comunità del Buon Pastore, un nutrito gruppo di donne e uomini cattolici che si riunisce settimanalmente presso il convento delle Holy Rosary Sister (le Suore del Rosario) che confina con il consolato generale degli Stati Uniti.

Le incontro al termine della Messa per una conversazione a più voci che inizia con l’evidente timidezza delle tre interlocutrici. L’imbarazzo si scioglie ben presto e il racconto del loro presente di lavoratrici tanto lontane dalla loro terra fluisce quasi assumendo un tono confidenziale e intimo.

Felisa, la più anziana, a casa ha lasciato soltanto il marito; Jean, invece, anche tre figlie. Lesandra – che è responsabile della comunità – è la più giovane ed è single.

La comunità del Buon Pastore deve molta della sua vitalità a Couples for Christ, un movimento di spiritualità familiare, di impronta carismatica, nato a Manila nel 1981 e diffuso ormai in 160 Paesi grazie anche all’emigrazione filippina. In Israele il movimento ha messo radici nel 1996 e oggi conta circa 500 membri, distribuiti soprattutto tra Tel Aviv e Gerusalemme.

Lesandra spiega che «l’intento della nostra formazione come membri di Couples for Christ è di renderci più uniti e di scoprire e mettere in comune i nostri talenti». Felisa aggiunge: «Preghiamo insieme e condividiamo le nostre riflessioni. Nei momenti bui si condividono i problemi, a volte anche quelli molto personali. Alla fine tutti ci sentiamo più sollevati e contenti perché abbiamo intorno a noi altri che ci sostengono. Quando sei lontano dalla famiglia, magari con figli piccolissimi rimasti a casa, è molto dura. L’aver accanto gli altri membri della comunità che pregano per i nostri problemi aiuta molto».

Ma lo sguardo non è puntato solo su se stessi. Da Manila il direttore di Couples for Christ, Frank Padilla esorta i membri a farsi solidali con i più mal messi tra i connazionali rimasti in patria. Nel 2004 è stata lanciata la campagna Gawad Kalinga, un progetto di solidarietà ed educazione al volontariato volto a migliorare le condizioni socio-economiche delle Filippine: la sfida principale è di sradicare il fenomeno dei senza tetto in sette anni. I filippini emigrati contribuiscono con una colletta settimanale. «Coi fondi raccolti tra noi qui a Gerusalemme – spiega Lesandra – è stato costruito un piccolo villaggio nelle Filippine di 10 case e l’azione continua».

Felisa spiega aggiunge altre occasioni di solidarietà nei casi in cui qualcuno dei connazionali in Israele si trovi in grave difficoltà: «Lo facciamo attraverso le offerte che raccogliamo alla Messa. I filippini che non vanno in chiesa, invece, si rivolgono all’ambasciata la quale rilascia loro delle lettere di sostegno. Le richieste di aiuto e gli appelli trovano poi spazio anche nei giornali rivolti a noi filippini come Manila Tel Aviv o Focal».

Con Jean spostiamo il discorso su un altro tema: «Nelle Filippine ho lasciato mio marito e tre figlie. Ho deciso di venire a lavorare all’estero quando le mie figlie hanno cominciato a studiare perché ci tenevo che potessero arrivare fino alla fine. È dura e costa molti sacrifici, ma ne è valsa la pena perché tutte hanno terminato gli studi. La mia prima figlia ha 25 anni e ha frequentato studi commerciali. Grazie a Dio ora lavora in una delle società più importanti del Paese, a Manila. La seconda ha terminato i corsi di psicologia e lavora anche lei. L’ultima ha ancora 14 anni e studia fisioterapia. Sono molto orgogliosa di loro e dei sacrifici fatti per farle arrivare lì. Le mie figlie stanno con mio marito, i miei suoceri e mia cognata, ma sento che manca qualcosa. Non sono testimone della loro crescita. So che sono brave, ma non posso dire di conoscerle a fondo. Condividono con me i loro sentimenti per telefono o via e-mail, ma sul piano affettivo la distanza pesa. In famiglia sono io quella che guadagna di più. Mio marito manda avanti una piccola impresa familiare ma non guadagna abbastanza. Ho detto alle mie figlie: "Avete sperimentato cosa vuol dire crescere senza la mamma. Quando vi sposerete non fate come me. State con vostro marito e i vostri figli"».

S’inserisce Felisa: «La percentuale di sitpendio che inviamo a casa varia secondo le esigenze della famiglia. Se ci sono molti figli quasi tutto il salario viene destinato ad essi. Così sono le stesse banche, qui in Israele, ad ammonirci a non dimenticare le nostre necessità individuali. Il punto è che in qualche modo i genitori lontani cercano di comprare l’affetto dei figli che hanno dovuto lasciare. Ma a quei ragazzi ciò che manca davvero è la guida della madre. Finisce che molti di loro non vanno più nemmeno a scuola e stanno in giro a spendere i soldi ricevuti. Così tutti gli sforzi finiscono in nulla e le madri soffrono ancora di più».

Riferisco alle mie interlocutrici le riflessioni di una loro connazionale incontrata tempo fa a Roma. Parlandomi dei costi sociali, in patria, dell’emigrazione, la signora Charito Basa si chiedeva: varrà la pena di continuare ad emigrare o non sarà più conveniente, da un punto di vista sociale prima che economico, restare a casa?

Felisa annuisce: «È profondamente vero. Quando sento qualche donna raccontare che ha lasciato a casa dei bimbi di un anno le dico sempre: "Ma come hai potuto? La madre è la persona migliore per badare ai figli". Non basta dare loro soldi. Si finisce per fallire perché i bambini crescono sbandati. La presenza di una madre non ha prezzo. Non c’è denaro che possa ripagarne l’assenza. Io non ho figli, ma avverto questo problema perché sono cresciuto senza una mamma al mio fianco. Quando ero bambina lei doveva sempre lavorare perché era rimasta vedova. Ancora oggi che sono ormai anziana avverto quel vuoto come una grande ferita. Ma la gente oggi pensa solo ai soldi. Persino i mariti sono viziati. Dato che ricevono i soldi dall’estero molti di loro, almeno la metà, non vanno più a lavorare».

Che segni ha impresso sulla personalità di queste donne l’esperienza che stanno vivendo. Felisa è telegrafica: «Io sono rimasta la stessa. Ho una profonda fede in Dio. Quando preghi molto, lui ti guida. La signora di cui mi prendo cura ha 97 anni. Quando lei non ci sarà più tornerò a casa e cercherò di costruire qualcosa di nuovo, una nuova vita».

Lesandra, con una visibile emozione, schiude aspetti intimi della sua storia: «Io invece sono cambiata. Ho lasciato le Filippine dopo un brevissimo periodo di insegnamento alle elementari perché lo stipendio era troppo basso. Vivevo in un villaggio poverissimo e nutrivo delle ambizioni per le quali era necessario avere più soldi. Non ho voluto sposarmi e legarmi perché avevo la fobia di ritrovarmi nuovamente in una situazione già sperimentata: in casa mia si mangiava una sola volta al giorno. Eravamo sei figli (io sono la più giovane) e nonostante i miei genitori facessero del loro meglio non bastava. Tutti abbiamo finito il college, grazie unicamente allo stipendio di mio padre. Ora siamo all’estero in due. Appena partita sono andata a Cipro, poi mi sono trasferita qui in Israele dove lavoro ormai da quattro anni. Durante il secondo anno mi sono posta l’obiettivo di fare venire anche mio fratello, perché sapevo che aveva molti problemi con sua moglie. Ora anche lui è qui e fa parte di questa comunità, dove, anche se non c’è la mia vera mamma, ho trovato tante altre madri. Il lavoro qui è molto diverso da quello a cui eravamo abituate. In genere ci affidano donne molto malate e affiancarle richiede grandi sacrifici. La signora per cui lavoro attualmente ha 95 anni e da oltre quattro mesi è in ospedale. Io sto al suo capezzale giorno e notte. Quando arrivo qui la domenica sono molto stanca e casco dal sonno, ma sono tanto felice. Servo gli altri e così sento di servire Dio. Non avverto la solitudine perché so che lui è con me».

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