Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Il mio nome è Coraggio

Sara Laurenti
2 marzo 2007
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Nella cittadina di Betania, Samar lotta per offrire agli orfani e alle ragazze madri un futuro migliore, sfidando pregiudizi e chiusure.


Viene continuamente additata perché non indossa il velo. Nella città palestinese di Betania, appena oltre quel muro che nasconde Gerusalemme e che divide i ricchi dai poveri, i fortunati dagli sfortunati, Samar Sahhar cammina sempre a testa alta e scoperta. Non si arrende all’invito più o meno energico di chi la vorrebbe velata e nascosta, quasi a sfidare l’oscurantismo di chi crede nell’imposizione. Né si lascia impressionare da chi si augura e fomenta lo scontro tra Israele e Palestina.

Samar è una delle poche donne cristiane rimaste in zona palestinese. È nata a Gerusalemme Est 46 anni fa. Ha frequentato l’Università di Betlemme in management e seguito corsi in discipline educative in Inghilterra. Nel 1995 ha partecipato al Colombus International Programme negli Usa con un gruppo di palestinesi in missione di pace in Ohio. È da 37 anni che lotta, da quando era bambina, prima insieme ai suoi genitori gestendo un orfanotrofio maschile, poi da sola quando ne ha inaugurato uno femminile. I suoi l’hanno educata a non mollare, a non aver paura di essere considerata una sognatrice.

Controcorrente. In un luogo dove si è madri addirittura a dodici anni, Samar, anche in questo caso, è controcorrente. È consacrata tra i Memores Domini nel movimento di Comunione e Liberazione. «Non sono stata capace di amare altro che Dio e il mio lavoro», confida. Ma lì al Lazarus Home for Girls (la Casa di Lazzaro per ragazze), dove Samar accoglie una trentina di giovanissime orfane, la chiamano «mamma Samar». Sono tutte musulmane abbandonate da famiglie indigenti. E tra loro c’è anche un ragazzino senza genitori. «L’altro giorno proprio lui mi ha chiesto: “Cosa fanno gli animali col coprifuoco?” E poi ha aggiunto: “Cos’è questa guerra?”. Gli ho spiegato che gli israeliani cercano di far fuori i palestinesi e viceversa. Allora il mio bimbo ha commentato: “Loro hanno bisogno di vivere, noi anche. Perché non possiamo stare insieme?”».

La storia di ciascuna delle sue ragazze sembra la trama di un libro: «Safiria è stata trovata in un pollaio piena d’ustioni, Nanni era incatenata in una grotta a Betlemme, Nahla, no nostante un’infanzia violenta, oggi è una studentessa modello, Cabila è stata abusata, violentata, bruciata in diversi parti del corpo».

Il cuore grande di Samar però non si ferma ai piccoli. «Ogni tanto arrivano donne che devono essere nascoste. Sono passate da qui prostitute, ma anche donne con difficoltà mentali e con traumi profondi: la grande casa di Samar accoglie anche donne in difficoltà. «Se n’è appena andata una ragazzina di 13 anni che si è ribellata alla sua famiglia che già da tre anni la costringeva a prostituirsi», racconta senza reticenze la palestinese. «Ora la sua famiglia ha messo una taglia su di lei».

Scomoda.No nostante tutto il bene che fa, di recente gli abitanti di Betania hanno firmato una petizione per chiudere l’orfanotrofio «che nasconde le donnacce», così chiamano da queste parti le donne che si ribellano alle tradizioni e ai soprusi. Se Samar le abbandonasse, verrebbero probabilmente lapidate. Oltre a loro, pensa  sempre ai settanta bambini orfani al Jeel El Amal (Generazione della speranza): «Per invidia qualcuno mi ha portato via l’orfanotrofio dei miei genitori e anche una parte importante della mia vita», si rattrista. «Non posso non pensarli», si commuove. Sa che potrebbero essere le prime vittime della guerra. «Un orfano non ha nessuno, quindi i miei ragazzi sono i più adatti all’Intifada, candidati ideali per diventare kamikaze. Vittime prima di tutto della disperazione, senza una scuola dove andare o un lavoro per progettare il futuro. E allora c’è tempo per riempirsi la testa di ideologie, di bugie», sbotta. «Non voglio che i miei figli – quelli di Jeel Al Amal – muoiano o uccidano! Ne sarei responsabile».

Oltre alla disoccupazione endemica, nella cittadina non esiste nemmeno un presidio medico. «Capita che le bambine si facciano male ed è un bel guaio. Un giorno siamo andati ad Abu Dis, al checkpoint israeliano, perché una si era rotta un braccio, ma non avevano il materiale per ingessare l’arto», rivela. «Abbiamo dovuto allora scavalcare il muro, rischiando la vita per raggiungere Gerusalemme.  Ora vorrei costruire accanto alla scuola un ambulatorio medico».

Nonostante le preoccupazioni e le difficoltà quotidiane, Samar non si arrende. Racconta il suo progetto di riaprire un panificio dopo una precedente esperienza fallita. «Questa volta funzionerà. Il negozio si chiamerà Charlie’s Bakery (Panificio di Charlie) in memoria di un ragazzo inglese. La famiglia ha raccolto i fondi per pagare il terreno». Accanto è stata inaugurata, lo scorso 21 dicembre, Pizza Malek (Pizza Angelo) che il Comune di Valmontone (Varese) ha sponsorizzato. E due ragazzi di Betania sono stati in Italia per imparare il mestiere di pizzaiolo.

«È stata una bella festa, con tanti amici dall’Italia e dalla Lombardia in particolare», si anima. «Faccio mia la massima di una santa: “Se il mio letto sarà di fiori, lo cambierò domani”».

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