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A un anno dalla vittoria elettorale di Hamas la situazione politica tra i palestinesi appare sempre più aggrovigliata.

Abu Mazen forza la mano: «Nuove elezioni per l’Anp»

Elisa Pinna
15 gennaio 2007
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Abu Mazen forza la mano: «Nuove elezioni per l’Anp»
Donne palestinesi manifestano a sostegno del presidente Abu Mazen.

L’incertezza regna a Gaza e in Cisgiordania. Ad un anno dal primo voto democratico della loro storia, tenutosi il 25 gennaio scorso, circa quattro milioni di palestinesi continuano a vivere sull’orlo del precipizio di una guerra fratricida, nonostante qualche debole segnale di speranza e dialogo.

Dopo mesi di inutili trattative per un governo di unità nazionale, e in un crescendo di violenze interpalestinesi sempre più efferate, lo scorso dicembre il presidente Abu Mazen (leader del movimento laico di Fatah) ha lanciato la sfida di indire elezioni politiche e presidenziali anticipate allo scopo di rovesciare l’attuale maggioranza parlamentare islamista di Hamas. Il premier in carica, Ismail Haniyeh, ha denunciato la mossa presidenziale come «un colpo di Stato» e la situazione è ulteriormente precipitata tra agguati, rapimenti di ministri e capi della polizia. Le brevi tregue tra le parti, più che ad una soluzione della crisi, sembrano servire solo a far riprendere fiato ai combattenti, senza che al momento sia chiaro se il nuovo voto si terrà o meno.

Che il successo elettorale ottenuto dai radicali islamici, 12 mesi fa, non fosse il miglior viatico per la ripresa di un negoziato di pace tra palestinesi e israeliani, lo si era capito subito. Tuttavia era difficile prevedere quali sventure il governo monocolore di Hamas avrebbe portato al popolo che lo aveva democraticamente eletto.

Agli inizi molti, anche tra i palestinesi cristiani, speravano che Hamas, grazie alla sua forza organizzativa, alle sue ramificazioni sociali e al seguito indiscusso nei territori e a Gaza, potesse divenire un interlocutore politico più credibile di quanto lo fosse ormai Fatah, sfilacciato da decenni di intrighi interni, dalla corruzione, dalla mancanza, dopo la morte di Yasser Arafat, di un leader carismatico. Nella storia mediorientale, a volte i falchi e non le colombe hanno dimostrato la forza e il coraggio di compiere progressi nella pace. Il movimento islamico palestinese non ha dato però prova di alcun pragmatismo. Dall’altra parte, il blocco e il martellamento militari di Israele e l’embargo imposto dall’Occidente (Stati Uniti, Europa e Russia) hanno tolto spazio a qualsiasi spiraglio diplomatico con gli i slamisti al governo. Il premier Haniyeh non ha concesso aperture e continua a ripetere, come un mantra, che Hamas non riconoscerà la legittimità dello Stato ebraico e gli accordi di Oslo, così come la comunità internazionale e lo stesso presidente dell’Anp chiedono.

Con la chiusura dei confini, il blocco commerciale, il congelamento dei finanziamenti all’Anp, la popolazione palestinese, specie a Gaza, è stata ridotta alla fame e alla disperazione. Da un anno, decine di  migliaia di funzionari, poliziotti, medici, insegnanti palestinesi ricevono solo in parte a intermittenza i loro stipendi; le rimesse degli emigrati non arrivano più ai familiari rimasti in patria. La situazione è ai limiti di una catastrofe umanitaria, ripetono, inascoltati, le organizzazioni umanitarie e gli osservatori delle Nazioni Unite. I soldi a Gaza riescono ad entrare solo in contanti, nascosti in valigette che passano il valico di Rafah: vengono gestiti senza una contabilità di Stato, da chi (spesso ministri di Hamas) è riuscito a portarli con sé. Oppure vengono filtrati in Cisgiordania, stavolta da parte di Israele e dell’Occidente, attraverso Abu Mazen, spesso finendo per innescare battaglie interne sull’utilizzo e la legittima proprietà di tali fondi.

Nello sbando generale, specie nella Striscia, spadroneggiano ormai bande di delinquenti comuni, trafficanti di armi, gruppi armati improvvisati, che non si identificano né con Fatah né con Hamas, ma operano in quella zona indefinita tra criminalità, provocazione, terrorismo. «Gaza si è riempita di fucili negli ultimi tempi, ogni famiglia, ogni uomo ne possiede, o per attaccare o anche per difendersi», ci racconta un abitante locale. Dall’estate scorsa, con la guerra tra Israele e Libano, la crisi palestinese si è poi definitivamente intrecciata con quella libanese e con lo scontro per la supremazia regionale in atto ormai tra Teheran e il blocco dei Paesi arabi filo-occidentali.

Contro il nemico comune, ovvero Israele, Hamas, pur essendo un movimento sunnita, ha accettato l’alleanza dei miliziani sciiti libanesi di Hezbollah e i finanziamenti e la protezione dell’Iran sciita e della Siria. Negli stessi giorni di dicembre in cui il partito di Hezbollah portava in piazza a Beirut centinaia di migliaia di persone per chiedere le dimissione del governo laico di Siniora, Abu Mazen ha lanciato la sfida delle elezioni anticipate, quasi in una contromossa, per spodestare il governo islamico palestinese.

Nella partita a scacchi che si gioca nella regione, il passo del presidente palestinese è stata giudicato dalla maggior parte degli analisti azzardato, se non pericoloso. Innanzitutto non è pensabile che le elezioni possano tenersi in un clima di violenza e di paura. Qualora il voto avesse comunque luogo, ci potrebbe essere un boicottaggio generale o una nuova vittoria di Hamas, specie se i palestinesi si dovessero convincere che dietro ad Abu Mazen vi sono gli Stati Uniti e Israele . I colloqui recenti tra il presidente dell’Anp e il premier israeliano Ehud Olmert non fanno che rafforzare questa opinione in una parte della popolazione palestinese. Ma persino una vittoria consistente di Fatah non sarebbe di grande aiuto. Hamas conta su milioni di simpatizzanti ed è una forza di cui bisogna tener conto in qualsiasi ipotesi di negoziato.

Una rottura definitiva tra le due principali organizzazioni palestinesi rischierebbe di aprire uno scisma civile dalle conseguenze incalcolabili per la popolazione dei territori e di Gaza, ed anche per Israele e tutta l’area. La ripresa delle trattative tra Hamas e Fatah per la formazione di un governo di unità nazionale è stata invocata nelle scorse settimane da manifestazioni di piazza di migliaia di cittadini della Striscia e dei territori. «La lotta fratricida è una strada che porta a una nuova schiavitù che noi stessi ci imponiamo», ha ammonito il patriarca latino di Gerusalemme Michel Sabbah. Nelle tribolazioni della loro storia, i palestinesi sono sempre stati capaci di fermarsi a pochi centimetri dall’abisso. La speranza è che un accordo sia ancora possibile.

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