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Vite murate

28/12/2006  |  Betlemme
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Vite murate
Dintorni di Betlemme. Il muro voluto dagli israeliani durante i lavori di costruzione. (foto J. Kraj)

Diamo voce, ancora una volta, alle suore del Baby Hospital di Betlemme. Ci narrano delle dure restrizioni imposte dal «muro di difesa» edificato dagli israeliani intorno alla città palestinese. Anche questo brano è tratto da una lettera circolare che le religiose hanno scritto il 9 dicembre scorso.


Diamo voce, ancora una volta, alle suore del Baby Hospital di Betlemme. Ci narrano delle dure restrizioni imposte dal «muro di difesa» edificato dagli israeliani intorno alla città palestinese.
Anche questo secondo brano è tratto da una lettera circolare che le religiose hanno scritto il 9 dicembre scorso.

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Al di là della difficile situazione economica di Betlemme, il disagio più faticoso da accettare è la mancanza di libertà, della libertà di andare a cercarsi un lavoro, di gestire la propria vita e quella della propria famiglia in maniera dignitosa ed umana. La preoccupazione per il futuro dei figli, per il lavoro che non si trova, l’instabilità politica che non dà nessuna garanzia, la paura e la tensione che non mancano mai, sono motivo di desiderare di lasciare il Paese: «Tutto è chiuso intorno a noi – dicono soprattutto i cristiani, abituati ad "un’altra Betlemme" – come possiamo vivere qui, chiusi dentro il muro, in questa "prigione a cielo aperto", esposti a tensione, conflitti e violenza, senza le condizioni di una vita serena e pacifica che permetta di sentirci "normali"»?

Ci sembra di capire profondamente questa popolazione, soprattutto quando anche noi sperimentiamo in parte le loro stesse restrizioni.

Una delle sensazioni peggiori che ci possano capitare quando usciamo di casa con destinazione Gerusalemme è quella di trovare chiuso il portone del muro. Ci invade subito un senso di totale impotenza, di soffocamento, di ribellione e di oppressione, la sensazione di essere nelle mani di un altro che ti toglie la libertà e ti rende schiavo, che decide di tenerti in suo potere, a suo arbitrio.

Allora cominciamo ad innervosirci e a chiamare a squarciagola il soldato che dovrebbe essere di turno in alto nella torretta di controllo, per discutere la situazione e capire il motivo di tale chiusura; se non ci risponde nessuno cominciamo a bussare il portone grigio di ferro, sperando che i soldati ci sentano… ma il bussare delle nostre mani o i nostri «misurati calci» al cancello chiuso risultano fin troppo «vellutati» e non hanno successo.

Così qualche volta dobbiamo tornare a casa con la rabbia, perché i soldati non permettono di uscire neppure a noi. E allora ci ricordiamo delle parole di un soldato: «Se avete deciso di vivere a Betlemme, insieme ai terroristi, dovete accettare di essere trattate anche voi da terroristi»…

«Se non potessi uscire, non credo che ce la farei a star qui, in questa prigione di pochi chilometri quadrati». A volte ci esprimiamo anche così. Sono i momenti in cui noi stesse sentiamo quanto è difficile capire la sofferenza di questa popolazione, nonostante facciamo di tutto per condividere la loro vita.

Ci convinciamo sempre più che la vita di una persona dipende molto dal tipo di passaporto che esibisce…

I lavori di costruzione del muro a Betlemme si avviano alla conclusione. Come un serpente grigio, il muro stringe la città in una morsa mortale; lo constatiamo ogni giorno, da cose molto concrete. Il piano di tale costruzione ha qualcosa di malvagio e di assolutamente inumano. Le sue anse si muovono fin all’interno dei centri abitati, si snodano tra le case stesse togliendo luce e respiro… apri la finestra e… ti trovi davanti il muro grigio… fino a sentire un tonfo al cuore.

Il percorso del muro è stato tracciato con estrema «intelligenza» e attenzione: non solo si insinua tra le case, ma anche tra i terreni in modo da ritagliare quanto più è possibile della zona verde, togliendola al Territorio Palestinese, e tutto ciò come se fosse la cosa più ovvia. Il percorso del muro fa attenzione ad includere nella parte israeliana anche le sorgenti d’acqua del Territorio Palestinese, per destinarle ai nuovi insediamenti che stanno invadendo dovunque le alture che circondano Betlemme, generalmente le zone più belle e più verdi.

In seguito alla costruzione del muro, tutti coloro che da Gerusalemme vengono a Betlemme, turisti, pellegrini, o stranieri… in pullman o in auto, entrano attraverso una porta: una grande per le auto ed una molto ridotta, ritagliata nel muro per i pedoni. Per le auto i controlli possono essere tollerabili. Chi viene come turista, con l’auto o con il pullman non ha la possibilità di rendersi conto che la vera parte interessante del percorso per entrare in Betlemme, o per uscire da Betlemme ed entrare in Israele, sta dalla parte dei pedoni; chi non fa esperienza, almeno per una volta, di che cosa significhi uscire da Betlemme per entrare in Israele, come pedone, non può capire come si vive a Betlemme.

Tuttavia, anche dopo aver attraversato il check point a piedi, il turista o il pellegrino straniero, e anche noi stesse che viviamo a Betlemme, ancora non siamo in grado di capire a quale grado di umiliazione deve abbassarsi un palestinese, anche il più rispettabile, che con regolare permesso si appresta ad attraversare il check point. Perché, generalmente, al turista o allo straniero viene riservato un trattamento diverso e gli si concede di passare più velocemente…

Le procedure di controllo per i palestinesi diventano sempre più minuziose. Le modifiche si aggiungono alle modifiche in maniera tale da suscitare nel pedone la voglia di tornarci il meno possibile. Prima di raggiungere la «porticina» ritagliata nel muro (vi hanno disegnato perfino un paio di forbici!), i pedoni sono obbligati a incanalarsi per decine di metri in uno stretto passaggio tra pareti di rete che si incurvano verso l’alto formando una specie di tunnel, tra sporcizia d’ogni genere, mentre il vento freddo del mattino fa svolazzare tristemente i sacchetti neri di plastica e li accumula ad ogni angolo. «Mamma, guarda, siamo in gabbia come le scimmie!», diceva il piccolo Issa in braccio alla sua mamma che lo stava accompagnando ad una visita medica, anch’essi in coda nel tunnel di rete.

La domenica mattina è uno dei giorni più interessanti per vedere in che cosa consiste l’umiliazione palestinese e la vendita della propria dignità per mendicare a Israele un po’ di lavoro e di pane quotidiano; la fila di coloro che attendono di varcare il check point comincia alle 4 del mattino: persone, anche anziane, in piedi per ore, con il loro misero sacchetto nero di plastica con dentro un po’ di cibo, esposti alle intemperie, incanalati pazientemente verso i controlli. E questi sono i pochi «fortunati» che ricevono il permesso di uscire da Betlemme per lavoro.

Pezzi di cartone stanno disseminati qua e là, insieme alla sporcizia, nello stretto passaggio tra le pareti di rete, rendendo più acuta la sensazione di squallore e di abbandono. Su quei cartoni si siedono le persone più anziane, soprattutto quando sono costretti ad attendere per ore, fin dal mattino presto. Quei pezzi di cartone, così sporchi e ormai consunti, sono stati molto utili per la festa di fine Ramadan, soprattutto per le donne, quando, a migliaia, si erano ammassati presso la porta del muro, fin dal mattino presto, per poter passare i controlli e recarsi a pregare a Gerusalemme.

Riversatasi al check point di Betlemme, dopo che altri passaggi erano stati chiusi e vietati dai militari israeliani, la folla era diventata un fiume umano da far paura; dato lo stretto spazio a cui si viene attualmente costretti presso le porte del muro, il disordine e il caos sono stati inevitabili, così si sono aggiunti i gas lacrimogeni, le bombe assordanti e qualche ricovero in ospedale.

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