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Nel cuore del conflitto

Giorgio Bernardelli
5 maggio 2006
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A Hebron alcune famiglie ebraiche rifiutano di sgombrare un edificio che occupano illegalmente e la tensione si è impennata nella cittadina dei Territori palestinesi. Perché Hebron scotta?


Si vivono ore e giorni di tensione a Hebron, città dei Territori Palestinesi. Per ordine dell’Alta corte di giustizia di Israele, tre famiglie di coloni ebrei insediatesi in città vecchia, a ridosso della Tomba di Abramo, devono essere evacuate nella notte tra domenica e lunedì 8 maggio.

Gli occupanti resistono all’ingiunzione con la solidarietà di altri coloni. Asserragliati nell’edificio che dovrà essere sgombrato, hanno avuto scaramucce con le forze di sicurezza israeliane incaricate di far rispettare l’ordine del tribunale. L’ordine pubblico è a rischio in una situazione di rapporti già tesi con la popolazione araba e musulmana della città.

Sulla questione di Hebron il bimestrale Terrasanta ha pubblicato un approfondimento a firma di Giorgo Bernardelli nel numero di marzo-aprile 2006. Ve lo riproponiamo qui.

 

La sfida di Hebron cuore del conflitto

 

Sono settimane di notizie al cardiopalma dalla Terra Santa: l’uscita di scena di Sharon, la vittoria di Hamas alle elezioni per il Consiglio legislativo palestinese, il voto israeliano del 28 marzo. In una situazione oggettivamente difficile da decifrare c’è il rischio di lasciarsi schiacciare dall’ultimo lancio di agenzia. Senza vedere le dinamiche più profonde, quelle sulle quali alla fine si gioca davvero la possibilità di una pace ragionevole. Per questo, più ancora che a Gerusalemme o a Gaza, chi vuole cercare di capire dove sta andando il conflitto tra israeliani e palestinesi forse dovrebbe guardare con attenzione a Hebron. Perché se anche il barometro delle trattative di pace tornasse d’incanto a segnare il bel tempo, questa città resterebbe uno dei problemi più complessi da risolvere.

Hebron (oggi 160 mila abitanti) è il conflitto israelo-palestinese. È la città della grotta di Machpela, il piccolo fazzoletto di terreno che Abramo comprò dagli Ittiti per seppellire la moglie Sara e che per ogni ebreo osservante rappresenta la primizia della Terra promessa. È l’antica capitale del re Davide. Ma, nello stesso tempo, è la città araba cresciuta intorno alla tomba di Abramo, el Kahlil, l’amico di Dio nella tradizione musulmana. Il luogo, dunque, dell’intreccio per eccellenza, con questo mausoleo conteso, un po’ moschea, un po’ sinagoga (per non parlare delle sue vestigia crociate). Anche al tempo della diaspora, gli ebrei da qui non se ne sono mai andati. E così, per secoli, nella città araba era rimasto in piedi il quartiere ebraico, dove intorno al 1880 vivevano alcune centinaia di discendenti dell’antico popolo di Israele.

L’equilibrio salta nel 1929, quando in reazione all’intensificarsi dell’immigrazione sionista scoppia la prima rivolta araba. Proprio a Hebron succede l’episodio più grave: in un vero e proprio pogrom durato due giorni gli arabi uccidono 64 ebrei. E quando gli inglesi finalmente riprendono il controllo della situazione, ciò che resta della comunità ebraica è costretta a lasciare la città per prevenire ulteriori scontri. Le case degli ebrei diventano così il mercato arabo che sorge nei pressi della tomba di Abramo.

Arriva il 1967 e con la Guerra dei sei giorni Israele assume il controllo dell’intera Cisgiordania, la regione in cui si trova Hebron. L’occasione è troppo ghiotta per non pensare di tornare alla tomba di Abramo. L’impresa è organizzata con un vero proprio blitz dal rabbino Moshe Levinger, uno dei futuri leader del Gush Emunim, il «blocco dei fedeli», l’organizzazione religiosa che più ha creduto nel ritorno di Israele ai suoi confini biblici. Con un gruppo di discepoli Levinger nella primavera 1968 ottiene il permesso di poter celebrare la Pasqua al Park Hotel di Hebron. Una volta arrivato sul posto il gruppo non se ne andrà più . Dopo una lunga trattativa si arriva al compromesso che vede nascere, alla periferia di Hebron, la grande colonia di Kiryat Arba (oggi 6.600 abitanti). Ma da lì, con un nuovo blitz organizzato da Levinger e messo in atto dalle donne e dai bambini della comunità, nel 1979 i coloni torneranno anche a Beit Hadassah, espandendosi intorno alla tomba di Abramo.

Non stupisce che la tensione salga velocemente alle stelle. Da parte araba le posizioni si radicalizzano. Ma Kiryat Arba diventa anche la roccaforte dell’estremismo ebraico. Finché nel febbraio 1994, nell’ultimo giorno del mese di Ramadan e in coincidenza con la festa ebraica di Purim, il colono Baruch Goldstein si mette a sparare sui musulmani in preghiera alla tomba di Abramo, uccidendone 30 con l’intenzione di vendicare la strage del 1929. Da allora Hebron è diventata una città in perenne stato d’assedio.

Prima ancora che nel resto della Cisgiordania, il «muro» è nato alla metà degli anni Novanta dentro il mausoleo di Abramo: per visitarlo ebrei e musulmani percorrono due tragitti diversi, separati da una barriera, senza incontrarsi mai. Per garantire la sicurezza di alcune centinaia di israeliani che vivono al centro della città, alcune zone sono state interdette a decine di migliaia di palestinesi. Il mercato arabo è stato chiuso e, nei locali vuoti, si sono insediate alcune famiglie di coloni. L’hanno ribattezzato Mitzpe Shalhevet, in memoria di un bambino di soli dieci mesi, ucciso da un cecchino palestinese nel marzo 2001.

Adesso, però, anche il nodo Hebron sta venendo al pettine. A quattro anni di distanza dalla presentazione del ricorso da parte dei negozianti arabi, l’Alta Corte di giustizia israeliana ha infatti stabilito che le famiglie di Mitzpe Shalhevet non hanno alcun titolo per occupare gli edifici. Il conseguente ordine di sgombero, insieme a quello dell’insediamento di Amona, è coinciso con le prime delicatissime settimane del dopo-Sharon. Olmert ha usato la mano pesante ad Amona (con scontri molto duri e feriti); da Mitzpe Shalhevet invece i coloni se ne sono andati spontaneamente. Sostenendo, però, di avere dal governo la promessa di un ritorno «legale». Promessa «tattica» o qualcosa di più serio? Lo sapremo solo nei prossimi mesi.

Certo è che la questione Hebron è ben più di una seconda puntata dello sgombero da Gaza.  Hebron è la dimostrazione di come l’approccio del disimpegno unilaterale non potrà portare a una pace vera. Se e quando sarà finito il disimpegno, la città resterà inequivocabilmente dalla parte palestinese del muro. Ma può Israele rinunciare a un luogo così importante per la sua storia e la sua identità?

È su Hebron, dunque, che si gioca la partita veramente importante. Sarà la linea di difesa più dura del popolo dei coloni. Trovare una strada per aggirarla, garantendo comunque la possibilità per gli ebrei di recarsi alla tomba di Abramo, sarà uno dei rompicapo più difficili che il nuovo governo israeliano si troverà ad affrontare dal 29 marzo in poi.

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