Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Leggere la Bibbia per capire il Corano

Paolo Branca
10 aprile 2006
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Coi tempi che corrono, parlare del profondo rapporto di continuità che sussiste fra la tradizione giudaico-critiana e quella islamica può suonare stonato. Eppure, a dispetto dei numerosi scontri che nella storia le hanno viste una opposta alle altre, le tre grandi religioni monoteiste che si rifanno ad Abramo sono strettamente correlate fin dalle origini, al punto che non sarebbe possibile comprendere molti passi del Corano senza avere una buona conoscenza non solo della Bibbia, ma più in generale della letteratura fiorita attorno ad essa. Del resto, è lo stesso Testo sacro dell’islam a suggerire di far ricorso alle precedenti rivelazioni per chiarire eventuali incertezze: «E se tu sei in dubbio su qualcosa che ti abbiam rivelato, domandane a quelli che leggono la Scrittura antica» (10,94). Così come anche un detto risalente al Profeta afferma che non c’è nulla di male nel rifarsi alle tradizioni dei figli di Israele.

Il naturale desiderio di conoscere maggiori particolari circa le grandi figure del passato cui il Corano si limita a far cenno sta certamente alla base della fortuna di un intero genere letterario islamico conosciuto col nome di Qisas al-anbiyâ’ (Storie dei Profeti), ma talvolta non ci troviamo di fronte soltanto a tale legittima aspirazione. Lo stile allusivo del Testo sacro dell’islam fa supporre che talune vicende fossero ben presenti ai suoi destinatari, tanto da consentire alla «rivelazione» di richiamarle per sommi capi, persino saltando passaggi logici indispensabili alla narrazione.

Un esempio lampante è il modo in cui viene riproposto un celebre episodio della vita del re Davide: «Ti giunse mai notizia dei litiganti, quando scalaron il muro della sua stanza privata, / quando entrarono da David ed egli n’ebbe spavento e gli dissero: "Non temere! Siam due litiganti dì cui l’uno all’altro fe’ torto; or tu giudica fra noi secondo verità: non essere ingiusto e guidaci su via piana. / Or costui è mio fratello e aveva novantanove pecore e io una pecora sola e mi disse: ‘Affidala a me!’ e mi soverchiò nella disputa". / Disse David: "Ei t’ha fatto ingiustizia chiedendoti la tua pecora per aggiungerla alle sue, e davvero molti associati in un affare si fanno torto gli uni con gli altri, eccetto coloro che credono e operano il bene, ma quanto son pochi!" Ma s’avvide David che Noi l’avevam messo alla prova e chiese perdono al Suo Signore e cadde a terra prostrato, e si volse a Dio di nuovo» (38, 21-24).

È evidente che soltanto chi abbia presente la storia del marito di Betsabea che fu inviato in prima linea da Davide affinché morisse e il re potesse così sposarne la vedova potrà comprendere la ragione del pentimento e della richiesta di perdono che chiude il racconto. Il Corano, probabilmente per delicatezza, non parla esplicitamente del peccato commesso da Davide.  Ce lo lascia solamente intuire. Quanti hanno voluto saperne di più, tra cui gli stessi esegeti musulmani, si son dovuti rifare ad altre fonti. Le nostre scuole, se solo fossero meno inficiate da un laicismo di bassa lega, avrebbero la possibilità di riprendere questa ed altre memorabili pagine della Bibbia, a vantaggio non solo dei numerosi studenti musulmani che ormai le frequentano, ma anche dei molti cristiani che non le conoscono più, e che sono privi degli strumenti per comprendere la loro stessa civiltà, prima ancora delle altre tradizioni religiose.

(* L’autore è arabista e islamologo presso l’Università cattolica del Sacro Cuore, Milano)

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