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La rivolta degli affamati a Gaza

Elisa Pinna
20 marzo 2019
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La rivolta degli affamati a Gaza
Fermo immagine da uno dei video girati a Gaza durante le proteste di metà marzo 2019.

Per tre giorni, intorno a metà marzo, nella Striscia di Gaza fasce della popolazione hanno manifestato contro le tasse e la povertà. Pugno di ferro di Hamas per reprimerle.


Copertoni bruciati, lancio di lacrimogeni, sassaiole, manganellate, retate di massa. Gaza è abituata a violenze di tutti i tipi. Tuttavia, da giovedì 14 a sabato 16 marzo, per tre giorni di seguito, sono andate in scena proteste meno consuete da queste parti: centinaia di giovani, madri di famiglia e anziani, esasperati da una povertà che si sta trasformando in fame e da nuove tasse sui prodotti di prima necessità, hanno sfilato nelle città e nei campi profughi della Striscia al grido di «Vogliamo vivere!».

Le milizie di Hamas hanno reagito con una brutalità inaspettata, disperdendo, picchiando e arrestando i manifestanti e i giornalisti che cercavano di documentare i pestaggi. Foto e video ripresi da testimoni sui balconi e postati su Internet mostrano poliziotti che si accaniscono con i manganelli su giovani già immobilizzati a terra, donne velate con i volti insanguinati. Sabato una parte dei commercianti di Gaza City hanno chiuso i negozi in segno di solidarietà con le proteste dei giorni precedenti, provocando una nuova ondata di arresti, con incursioni casa per casa, per catturare i presunti promotori del nuovo movimento, che si chiama, per l’appunto, Vogliamo vivere.

Ci sarebbero già circa 500 persone agli arresti, secondo quanto denunciano i media palestinesi (come l’agenzia indipendente Ma’an che ha un proprio ufficio a Gaza City) e quelli israeliani (Haaretz). Non si conosce la loro sorte, né quante siano state rilasciate. Il fatto è che per i dirigenti di Hamas, o almeno la maggioranza di loro, il movimento dei giorni scorsi non ha nulla di spontaneo e innocente, ma è istigato – accusano – dall’Autorità Nazionale Palestinese (controllata dal partito laico Fatah – ndr) per mettere in ulteriore difficoltà il movimento islamista al potere nella Striscia. «È Abu Mazen, che di recente ha deciso un ulteriore taglio degli stipendi e dei sussidi per i residenti di Gaza, il principale responsabile della sofferenza dei palestinesi della Striscia, subito dopo Israele», ha detto il portavoce di Hamas, Hazem Kassem. Il quale ha inoltre giustificato la repressione violenta, perché simili proteste distraggono e danneggiano la «resistenza all’occupazione» israeliana.

La Strisca è alla fame

In realtà, a organizzare e guidare le manifestazioni – secondo testimonianze locali – c’erano molti volti nuovi e, agli inizi, l’obiettivo delle contestazioni non era principalmente nemmeno Hamas, anche se la causa scatenante sono stati i nuovi balzelli imposti dal regime islamista. Il problema di fondo è che la gente non ce la fa più, come ha spiegato ad Haaretz Samir Zaqout, vicedirettore del Centro Meazan per i diritti umani. «In passato la povertà non ha mai raggiunto il livello della fame. Oggi c’è proprio fame. Le manifestazioni di questi giorni sono la risposta ad una situazione drammatica, specialmente tra i giovani. Tanti provano a scappare per raggiungere via mare la Turchia o si dirigono verso la barriera con Israele. Molti cercano lì proprio la morte in mancanza di motivazioni per vivere».

Il pugno di ferro usato da Hamas ha messo a tacere per ora le proteste. Resta da vedere per quanto tempo e quale sarà il prezzo in termini di popolarità. Tra i dirigenti di Hamas, qualcuno, come Yahya Moussa, un membro dell’ufficio politico, si è dissociato dalla repressione, sostenendo che le autorità avrebbero dovuto comprendere ed essere solidali con le ragioni di chi è sceso in piazza.

In attesa della marcia del ritorno di venerdì prossimo – un test per vedere se ci saranno nuove tensioni tra la popolazione e il regime – un video sta spopolando a Gaza: mostra un anziano impoverito, insieme al suo asino, che protesta solitario davanti ad un locale ufficio delle imposte contro una nuova tassa di 500 shekel (circa 130 euro) sull’animale, l’unica proprietà e l’unico mezzo di sostentamento rimasto all’uomo.

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