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Un progetto agricolo italo-palestinese a sud di Hebron

Chiara Cruciati
2 dicembre 2016
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Un progetto agricolo italo-palestinese a sud di Hebron
Muretti a secco e strisce di terra verdeggiante di nuove coltivazioni. Siamo nei pressi di Somara, in Cisgiordania. (foto C. Cruciati)

In nome della sovranità alimentare, un'ong italiana e una palestinese, a partire dal 2014, collaborano in un progetto triennale che vuole rilanciare l'agricoltura nel sud-ovest della Cisgiordania.


(Al Burj, Cisgiordania) – Trecento ettari e altrettante famiglie, 1.800 beneficiari diretti e la riqualificazione di una zona tradizionalmente contadina, ma trasformata da decenni di occupazione militare. È questo in sintesi l’obiettivo che si sono posti tre anni fa il Centro regionale di intervento per la cooperazione (un’ong italiana, fondata a Reggio Calabria nel 1983, più nota con l’acronimo Cric) e l’organizzazione palestinese Land Research Center (Lrc) a sud di Hebron.

Alla base c’è un concetto chiave: la sovranità alimentare. «In economia è una politica che implica il controllo da parte di un popolo della produzione e del consumo di alimenti – ci spiega Gianluca De Luigi, responsabile del progetto del Cric in Palestina –. È un concetto coniato nel 1996 dal movimento contadino internazionale La Via Campesina. Nel corso del tempo ha assunto diverse connotazioni: nell’ambito del nostro progetto significa fornire ai beneficiari gli stumenti per il controllo della politica di produzione».

Nella pratica l’idea che ha guidato l’implementazione del progetto, finanziato dall’Agenzia italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, è quella di riabilitare le capacità produttive di una zona semi-arida attraverso la reintroduzione di buone pratiche agricole e sementi tradizionali, con obiettivi di lungo periodo: fornire i villaggi interessati di nuove opportunità economiche e mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici che stanno modificando irrimediabilmente la ricchissima biodiversità palestinese.

Coinvolti nel progetto sono alcuni villaggi del sud-ovest della Cisgiordania – nella circoscrizione del governatorato di Hebron – colpiti negli anni da confisca di terre da parte delle autorità israeliane, costruzione del muro di separazione, perdita di posti di lavoro in agricoltura e indebolimento delle capacità produttive della terra a causa dell’imposizione di sementi non adatte. In luoghi come Al-Burj, Somara, Beit Mirsim, Adh-Dhahiriya, al-Bireh si svolgono, dal 2014, le attività del progetto, che si fonda su un sistema di gestione delle terre a basso impatto ambientale.

Ci spostiamo nel bacino di Somara, 300 ettari di terreni riabilitati da Cric e Lrc. Di fronte a noi una valle completamente diversa da quella che le ong ci hanno mostrato in fotografia: muretti a secco e barriere costellano il bacino, una strada agricola è stata aperta, sono scomparsi i canaloni d’acqua che avevano mangiato il terreno e impedito di attraversare la valle da una parte all’altra. Si tratta dei primi passi compiuti per impedire l’erosione dovuta al fluire dell’acqua che si accumulava a valle e la sua definitiva perdita, in una zona caratterizzata da siccità. Per farle fronte il progetto ha previsto anche la costruzione di cisterne sotterranee per raccogliere l’acqua piovana.

«L’aumento della produzione e il basso impatto ambientale sono i due fulcri del progetto – continua De Luigi – e vengono realizzati con diverse tecniche tradizionali. Con un obiettivo: rendere le parcelle fruibili per tutte le famiglie beneficiarie che le gestiscono attraverso quattro progetti pilota. La produzione di compost, la distribuzione di sementi tradizionali, il pascolo e le tecniche di raccolta dell’acqua sono stati presentati alle famiglie all’interno delle cosiddette “scuole di campo”: i beneficiari hanno seguito le tecniche agricole impiegate e ne hanno potuto verificare l’efficacia».

Di nuovo, il nostro interlocutore: «Oltre a ciò, lavoriamo anche alla gestione del paesaggio: gli interventi sono mirati a far risaltare il paesaggio storico attraverso le tecniche tradizionali come, appunto, i muretti a secco. Si tratta di elementi decorativi funzionali alla produzione “storica”, queste coltivazioni esistono da centinaia di anni. Non si modifica nulla ma si esalta in termini paesaggistici il territorio».

In questo modo, è la speranza dei contadini palestinesi, il recupero della terra e del suo controllo potranno far fronte ai danni provocati negli anni al settore agricolo palestinese dall’occupazione militare israeliana. Che qui si palesa in tante forme diverse: la barriera di separazione è a poca distanza, manufatto di cemento o filo spinato che ha mangiato terreni agricoli coltivati per secoli; i giovani fuggono, alla ricerca di impieghi più redditizi in Israele, come illegali o con in mano un permesso che li ha allontanati dalla terra; la fertilità degli appezzamenti è crollata a per l’imposizione di sementi estranee da parte del mercato dominante, quello israeliano.

Un circolo vizioso che oggi le comunità interessate vogliono veder trasformato in interazione virtuosa: grazie ai terreni recuperati per il pascolo aumenta la presenza delle mucche, fondamentali per la produzione del compost a cui viene aggiunta l’acqua di spremitura delle olive, i residui delle serre dove sono prodotti i pomodori e la pollina dell’allevamento di polli.

Il compost è poi distribuito ai beneficiari del progetto (così da verificarne gli effetti), insieme a decine di tonnellate di sementi tradizionali e migliaia di piantine di alberi da frutto: «Abbiamo sperimentato – riprende De Luigi – diverse varietà locali, resistenti alla siccità. Puntiamo sul tradizionale ulivo e sul mandorlo, otto diversi tipi di grano, orzo e leguminose per la rotazione dei campi»

«Questi semi scongiurano quanto avvenuto finora: il mercato israeliano ha imposto sementi non in grado di resistere al particolare clima del posto, poveri di fertilità, che non garantiscono gli stessi risultati gli anni successivi. Un elemento che obbligava i contadini a ricomprare ogni anno le sementi. In questo modo si slega il mercato palestinese da sementi impure: quelle consegnate sono prive di residui, pesticidi e contaminazione genetica».

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