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Iran, da che parte sta Macron?

Fulvio Scaglione
26 aprile 2018
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Circa l'accordo nucleare con l'Iran firmato nel 2015 da Usa, Russia, Cina, Francia e Regno Unito (con Germania e Unione Europea), il presidente francese sta con Trump. Ma l'Ue dice il contrario.


Nei giorni scorsi il presidente francese Emmanuel Macron si è recato in visita ufficiale negli Stati Uniti. L’argomento di politica internazionale che più ha trattato con il suo omologo e ospite, il presidente Donald Trump, è stato l’accordo sul nucleare firmato nel 2015 dall’allora presidente Barack Obama, dal cosiddetto P5+1 (cioè, i cinque Paesi del Consiglio di Sicurezza Onu, ovvero Usa, Russia, Cina, Francia e Regno Unito, più la Germania) e dall’Unione Europea.

Inutile ricordare qui, nei dettagli, che cosa prevede quell’accordo. In sostanza, blocca all’Iran la strada verso il nucleare militare per almeno tredici anni, lasciandogli margine di manovra per il nucleare civile. L’uso di ”almeno” è giustificato dal fatto che l‘arricchimento dell’uranio per scopi bellici non è un processo che si possa accendere e spegnere con un interruttore. Una pausa così lunga avrà un’inerzia che, di fatto, prolungherà lo stop di alcuni altri anni anche se, alla scadenza dell’accordo, l’Iran volesse riprendere i suoi esperimenti.

L’accordo è considerato valido e vigente dall’Unione Europea: «Sul nucleare iraniano c’è un solo accordo, funziona e dev’essere preservato», ha detto di recente Federica Mogherini, alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza: «Quello in vigore sta impedendo all’Iran di sviluppare armi nucleari e impegna il Paese a non acquisire armi nucleari senza limiti». Identico il parere della Russia di Vladimir Putin: «L’accordo esistente sul nucleare iraniano è senza alternative», ha detto Dmitrij Peskov, portavoce del Cremlino. L’Agenzia dell’Onu per l’energia atomica (Aiea), ovvero l’ente che controlla le attività dell’Iran, ha finora sempre confermato che tutto procede come previsto dal trattato del 2015.

Nel frattempo, però, è cambiato il presidente negli Stati Uniti. E Donald Trump ha sempre detto di considerare l’accordo del 2015 «un errore», «una catastrofe», «una follia». Le tesi di Trump hanno un fondamento, piccolo ma ce l’hanno. L’accordo sul nucleare iraniano è a termine e non comprende il settore missilistico, in cui Teheran ha fatto negli ultimi anni molti progressi. Per il resto, Trump non fa che replicare le tesi di Israele, che da almeno quindici anni ripete ossessivamente che l’Iran è alle soglie della bomba atomica, anche se ciò è palesemente falso.

Adesso la situazione è questa. Su un versante stanno Israele e Usa, che sono per la disdetta dell’accordo che, secondo loro, non funziona. Sull’altro versante, il resto del mondo, per cui l’accordo, invece, funziona. In mezzo Macron il furbetto, che è nella Ue (e ne approva la condotta quando dice che l’accordo funziona e va rispettato) ma va negli Usa a dire che, in effetti, bisognerebbe cambiare l’accordo.

Quale sia il cambiamento da apportare non si sa. Macron ha bofonchiato poche e genericissime parole. Secondo Trump, invece, la nuova versione dell’accordo dovrebbe occuparsi anche «… dello Yemen, della Siria e di altre parti del Medio Oriente». Che cosa c’entri questo con il nucleare lo sa solo lui, ma non importa.

Ora, volendo sintetizzare il quadro è questo:
1. Se gran parte del mondo sostiene che l’accordo funziona, come si giustifica la sua eventuale disdetta se non come un’imposizione di una parte di mondo più piccola, ma potente?
2. Stiamo cercando di fermare un’eventuale corsa alla bomba atomica dell’Iran o di mortificare il suo status di potenza regionale, magari a favore di qualche alleato come l’Arabia Saudita?
3. Come crediamo che venga visto il tentativo di due potenze nucleari come Usa e Francia (facciamo tre, includendo pure Israele) di umiliare un Paese che potenza nucleare non è?
4. La Francia è nella Ue? È mezza dentro e mezza fuori? L’europeismo di Macron vale solo per i discorsi e le conferenze stampa?
5. Il parere dell’Iran conta qualcosa oppure diamo per scontato che rilevi solo quello delle nostre cancellerie?

Tutto questo come piccolo promemoria per chi, in buona fede, ancora crede che esista una cosa chiamata «diritto internazionale». Perché da quando i neo-con americani hanno teorizzato il diritto alla «guerra preventiva», ciò che domina la scena del mondo contemporaneo è ciò che già la dominava all’epoca delle clave: il diritto del più forte.

 


 

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Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.

Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com

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