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Libia e migranti: l’Onu ha ragione?

Fulvio Scaglione
16 novembre 2017
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Le Nazioni Unite puntano il dito contro gli orrori che i migranti subiscono nel Paese, ma hanno anche responsabilità dirette nel dopo-Gheddafi.


Si infittiscono le denunce sulla situazione dei migranti che, in seguito ai patti siglati dall’Italia e dall’Unione Europea con il governo del premier Al Sarraj (l’unico governo riconosciuto dalla comunità e dalle istituzioni internazionali), restano bloccati in Libia in condizioni inumane. Converrà qui ricordare, sia pure in breve, che il 3 febbraio di quest’anno la Ue ha stipulato con il governo libico un accordo per la costruzione nel Paese nordafricano di campi sicuri per i migranti, finanziando allo stesso tempo un programma di rimpatrio per coloro che accettassero volontariamente di intraprendere la strada del ritorno e, soprattutto, varando un piano di addestramento e finanziamento della guardia costiera libica.

Le denunce che, appunto, si moltiplicano, riguardano soprattutto due aspetti. Le azioni della guardia costiera: non solo quelle in mare, ma anche quelle a terra, visto che molti sospettano i militari di essere parte del traffico di esseri umani. E poi la vita nei campi profughi, in condizioni spesso dipinte come più che tragiche e crudeli. «Inumana», così ha definito la politica di collaborazione con le autorità libiche Zaid Ra’ha al-Hussein, capo della commissione dell’Onu per i diritti umani, sottolineando che «la comunità internazionale non può continuare ad ignorare gli orrori inimmaginabili che i migranti devono affrontare in Libia».

È chiaro che la situazione è precipitata e che, per alleviare il calvario dei migranti occorre prima di tutto raccontarsi la verità. E, cioè, che bloccarli alle frontiere non basta. Che occorre prendere misure più ampie e illuminate, perché i flussi non sono destinati a calare da soli, visto che sono generati da un Medio Oriente devastato dalle crisi e dalle guerre, dove il 30 percento della popolazione ha meno di trent’anni, e da un’Africa tormentata e impoverita dove il 60 percento della popolazione (1,2 miliardi di persone) ha meno di 25 anni. Che bisogna intervenire alla fonte del problema, non alla foce, e che per «aiutarli a casa loro» occorre un vasto e coordinato sforzo internazionale.

Tutto questo, però, ci riporta anche all’Onu. Le Nazioni Unite sono capaci di produrre questo sforzo? Si direbbe di no, anche se non si capisce bene quale altro organismo dovrebbe impegnarsi in tale missione, visto che le grandi potenze (Usa, Cina, Russia, Giappone, India…) sembrano impegnate soprattutto a contendersi i mercati. E non solo: non furono proprio le Nazioni Unite, nel marzo 2011, a varare una risoluzione che approvava l’impiego di «ogni mezzo» per intervenire nella guerra civile libica contro Gheddafi? La Libia di oggi, dilaniata dalle rivalità tra le tribù e le milizie, è il prodotto diretto di quella guerra, sarà meglio non dimenticarlo. Infine: il premier libico Al Sarraj continua a essere l’unico riconosciuto dalle Nazioni Unite. La guardia costiera crudele è la «sua», i campi profughi inumani sono i «suoi». E l’Onu, che giustamente rimprovera la Ue, non ha nulla di dire al «suo» uomo, al signor Al Sarraj?

Sono contraddizioni non secondarie, perché segnano tutta la politica internazionale contemporanea. Gheddafi era un dittatore ed era giusto «denunciarlo». Ma che succede se la «denuncia» e le sue conseguenze peggiorano la situazione e le condizioni di vita di milioni di persone? Possono gli stessi organismi che denunciavano prima denunciare anche dopo, pur essendo stati parti in causa nella deriva? Sono ancora credibili?

 


 

Perché Babylon

Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.

Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com

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