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Ramallah, quando la solidarietà è un ricamo

Chiara Cruciati
12 agosto 2015
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Ogni giorno il Centro pastorale melchita di Ramallah è frequentato da decine di donne, che prendono parte a un laboratorio di ricamo nato ai tempi della prima Intifada per dare lavoro alle donne e renderle indipendenti. Il laboratorio consente anche di salvare una forma di artigianato tipico palestinese che rischiava di perdersi.


Ogni giorno il Centro pastorale melchita di Ramallah è frequentato da decine di donne. A guidare la struttura due italiane e una francese, che appartengono all’Associazione fraterna internazionale (Afi), un organismo laicale cattolico fondato nel 1937 da Yvonne Poncelet, belga, su ispirazione di padre Vincent Lebbe, missionario in Cina e pioniere del dialogo interculturale e interreligioso. L’Afi è arrivata in Palestina nei primi anni Sessanta per mettersi al servizio della Chiesa locale (in particolare della diocesi greco-cattolica). Helen e Lina, durante la guerra dei Sei giorni (1967) si trovavano a Ramallah.

Nei giorni successivi all’occupazione militare israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, le autorità di Tel Aviv compirono un censimento totale della popolazione palestinese. Chi era dentro, era dentro; chi fuori è rimasto fuori ed è diventato un profugo. Helen e Lina erano dentro: hanno così ricevuto la carta d’identità verde, quella dei palestinesi residenti in Cisgiordania. Da allora, sono considerate a tutti gli effetti cittadine palestinesi: «Per noi è un onore – spiega Lina –. Oggi ci trattano come qualsiasi altro palestinese della Cisgiordania».

Allo scoppiò della prima Intifada (1987-1993), le missionarie laiche dell’Afi, già ben integrate nella comunità palestinese, divennero il punto di riferimento delle donne. «Eravamo già inserite nell’ambiente di Ramallah. – riprende Helen –. All’inizio lavoravamo nella scuola parrocchiale e nei campi profughi. Le donne hanno imparato a conoscerci. Così con la prima Intifada vennero a chiederci aiuto. Molte di loro avevano perso i mariti, uccisi, feriti o fatti prigionieri. Erano sole e avevano bisogno di lavorare. Anche noi non avevamo nessun aiuto finanziario, vivevamo del piccolo salario locale. Ma c’era un’immensa necessità di intervenire, di fare qualcosa e di farlo in fretta».

Ispirate da un progetto avviato a Beirut nei campi profughi palestinesi, le tre hanno fatto lo stesso a Ramallah: hanno aperto un laboratorio di ricamo per far lavorare le donne e renderle indipendenti. Le donne ricamavano, e loro le aiutavano per la vendita dei prodotti.

«Iniziammo con una sola famiglia, tre donne. Poi piano piano ci siamo allargate: sono arrivate le cugine, le cognate, le zie. Oggi coinvolgiamo 250 donne di Ramallah e di una decina di villaggi delle vicinanze. Lavorano da casa con i materiali che consegniamo qui al centro: tessuto, cotone, fili. Non usano macchine, basta avere una buona vista. Poi portano il prodotto al centro e le sarte lo rifiniscono. Il problema durante l’Intifada era trovare i tessuti, quello nero, quello bianco. Quello che c’era al mercato, sparì in fretta perché esistevano altri progetti che stavano prendendo corpo a Ramallah. Facemmo i salti mortali per trovare i materiali, con l’esercito alla porta e i coprifuochi continui».

All’inizio l’altra grande difficoltà era la vendita. Non c’erano soldi per muovere i primi passi. Degli amici le aiutarono con qualche piccola somma: «Questo ci ha permesso di iniziare a vendere – continua Helen –. Alcuni membri dell’Associazione Salaam Ragazzi dell’Ulivo iniziarono a portare i nostri prodotti in Italia e sono entrati i primi soldi».

Così è cominciata la storia: oggi il laboratorio di ricamo vende in Terra Santa in collaborazione con qualche comunità che riceve i pellegrinaggi, ma anche in Europa grazie ad amici del laboratorio (per info e contatti: pal-embr@mada.ps).

«L’obiettivo del nostro Centro consiste nel promuovere una cultura della solidarietà e nel fornire alle donne, soprattutto provenienti dai villaggi rurali, strumenti di indipendenza economica. Il fatto che lavorino da casa è ben accetto alle famiglie, che altrimenti potrebbero impedire loro di uscire per lavorare. Inoltre con questo lavoro stiamo riscoprendo e valorizzando il ricamo tradizionale palestinese, che rischia di perdersi».

Il Centro di Ramallah è anche un luogo di dialogo, perché prima di essere cristiane e musulmane, queste donne sono palestinesi. Delle 250 lavoratrici, 40 sono cristiane, le altre musulmane: «Favoriamo insomma l’incontro tra le fedi, a dimostrazione che quanto accade in Palestina non è uno scontro religioso, ma piuttosto il risultato di una situazione di oppressione e ingiustizia».

Dello stesso avviso è abuna Juliu, parroco melchita di Ramallah, anche lui presente in Palestina dagli anni Settanta: «Il mondo arabo sta cambiando e il sogno e il progetto del popolo palestinese vive un momento di crisi. Si risente anche qui della divisione del mondo arabo, favorita o voluta dall’Occidente. Noi melchiti crediamo nell’unità del mondo arabo perché siamo parte del cristianesimo arabo. E come Chiesa facciamo un discorso di unità e non di separazione: per noi è fondamentale l’identità araba, che sia cristiana o musulmana».

«Qui come, in Occidente, c’è chi cerca di fare dei cristiani una minoranza da proteggere, invece che parte integrante della società – continua abuna Juliu –. Noi non vogliamo protezione, non vogliamo essere trattati come minoranza, ma salvaguardare la nostra identità che è araba. Noi non parliamo di appartenenza religiosa, ma di fede. E lottiamo come Chiesa con il popolo per la sua liberazione».

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