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Quegli arabi in Turchia «ospiti» sgraditi

di Giuseppe Caffulli
21 ottobre 2014
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C’è una Turchia che i media occidentali stentano a rappresentare. O che ignorano del tutto. È quella della gran massa di profughi presenti nel Paese, in fuga dalle guerre che hanno toccato il Medio Oriente negli anni recenti. Si tratta di rifugiati iracheni, di curdi, ma soprattutto di siriani. Un'ondata «araba» che genera malumori tra i turchi.


C’è una Turchia che i media occidentali stentano a rappresentare. O che ignorano del tutto. È quella della gran massa di profughi presenti nel Paese, in fuga dalle guerre che hanno toccato il Medio Oriente negli anni recenti. Si tratta di rifugiati iracheni, di curdi, ma soprattutto di siriani. Secondo Valerie Amos, sotto-segretario generale delle Nazioni Unite per gli Affari Interni e le Emergenze, il numero dei rifugiati siriani in Turchia sarebbe ben oltre il milione e mezzo.

Per le strade di Istanbul, Ankara e Smirne, non è raro vedere ragazzini e donne alla ricerca di qualche lira per sopravvivere. Qui li chiamano sbrigativamente «gli arabi». E ormai ci hanno fatto il callo. In moltissimi hanno lasciato i campi allestiti nel sud del Paese, dove le organizzazioni umanitarie locali prestano assistenza spesso solo a profughi di fede islamica. Chi è cristiano, in attesa di un visto per l’estero, non ha altra soluzione che bussare alle porte delle chiese e delle ong internazionali che hanno aperto uffici in varie città della Turchia. Una di queste realtà è la parrocchia di Meryem Ana di Istanbul, in zona Samatya. Qui cristiani siriani – ortodossi e cattolici – si recano ogni giorno alla ricerca di un pasto caldo o semplicemente per farsi una doccia. Per gran parte della giornata questa gente vive nei parchi cittadini; di notte dorme sulle panchine o in ricoveri di fortuna sotto ponti e cavalcavia.

Le storie di questi profughi sono tutte segnate da angoscia e dolore: c’è chi prima faceva l’avvocato, chi il ristoratore, chi il musicista, chi l’operaio. «Ovunque andiamo, siamo stranieri», si dispera Firas, un ragazzo alto e robusto che aveva un negozio nel suk di Aleppo, ormai ridotto a un cumulo di macerie. La moglie ha già ottenuto un visto per la Svezia, ma per lui il purgatorio turco sembra non avere fine.

Per i cristiani in fuga dalla guerra, c’è anche un ulteriore motivo di preoccupazione: spesso nei quartieri cittadini dove bivaccano in perenne attesa, si ripropone una dinamica tutta interna al conflitto siriano. Vengono infatti accusati dagli altri profughi di essere fiancheggiatori del presidente Bashar al-Assad, e quindi traditori del popolo siriano. «E così anche qui in Turchia, alla fine, per noi non c’è sicurezza», spiega Firas.

Anche all’interno della società turca cresce un sentimento d’insofferenza per «gli arabi» che hanno valicato il confine, specie per i cristiani. Di recente il presidente Erdogan ha varato una riforma che estende a tutte le scuole l’insegnamento della religione islamica, imprimendo un ulteriore duro colpo alla laicità del Paese. Se a ciò si aggiunge che in vari libri di testo turchi è presente un forte sentimento anticristiano (gli armeni e le altre comunità cristiane sono ancora dipinte come forze antagoniste a servizio dei disegni di conquista delle potenze straniere, a partire dalla Russia e dall’Inghilterra) si capisce come le sponde del Bosforo siano oggi un posto decisamente non ideale per i cristiani siriani in fuga dal baratro.

(Su Twitter: @caffulli)

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