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Una scuola da Oscar

Giorgio Bernardelli
4 marzo 2011
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Chi segue questa rubrica ricorderà forse il nome della scuola Bialik-Rogozin di Tel Aviv, frequentata in gran parte dai figli degli immigrati non ebrei: 800 ragazzi di 48 nazionalità. Domenica scorsa, la scuola è arrivata niente meno che all’Oscar a Los Angeles. Il premio per il miglior documentario breve è andato infatti al film Strangers No More, interamente girato in questo istituto israeliano.


Chi segue questa rubrica ricorderà forse il nome della scuola Bialik-Rogozin di Tel Aviv: si tratta dell’istituto famoso in Israele perché frequentato in gran parte dai figli degli immigrati non ebrei. Nelle sue aule sono presenti 800 ragazzi di ben 48 diverse nazionalità ed è un luogo importante attraverso cui guardare al problema delicatissimo dei figli degli immigrati che, a causa della rigidissima normativa israeliana in materia di lavoratori stranieri, vivono in condizioni molto difficili. La notizia della settimana è che la scuola Bialik-Rogozin la scorsa domenica è arrivata niente meno che all’Oscar a Los Angeles. La statuetta d’oro per il documentario breve è andata infatti al film Strangers No More, «Non più stranieri», prodotto e diretto dagli statunitensi Karen Goodman e Kirk Simon, ma interamente girato in questa scuola di Tel Aviv.

La piccola beffa per Israele è che dopo aver sfiorato più volte negli ultimi anni l’Oscar per il miglior film straniero piazzando un proprio film nella cinquina delle nomination, l’Oscar vero è arrivato da un film prodotto all’estero. Ma in fondo ciò che conta realmente è l’immagine di integrazione offerta da questa scuola attraverso le storie dei tre protagonisti: Mohammed, un rifugiato del Darfur giunto in Israele sedicenne, Johannes, figlio di un lavoratore eritreo ed Esther, fuggita a Tel Aviv con il padre dal Sudafrica dopo aver visto uccidere la madre. Il film offre un’immagine positiva di Israele, con un esempio invidiabile di integrazione: tanti di questi ragazzi giunti da lontano ormai parlano l’ebraico come la propria lingua. E giustamente giorni fa Manuel Disegni, sulla newsletter quotidiana dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, citava le parole del presidente Shimon Peres secondo cui questo film «mette in luce l’umanità di Israele».

C’è, però, anche un altro aspetto di questa vicenda che ben tre quotidiani israeliani in queste ore hanno messo in luce. Sia Yediot Ahronot, sia Haaretz, sia il Jerusalem Post hanno ricordato, infatti, che ben 120 degli 800 ragazzi stranieri della scuola Bialik-Rogozin sono tra quei 400 minori su cui continua a pendere una minaccia di espulsione. La legge israeliana, infatti, postula che la presenza dei lavoratori stranieri sia temporanea e dunque non prevede il diritto per loro a formarsi una famiglia. Del resto – con il solito tempismo encomiabile – proprio lunedì il ministro degli Interni Eli Yishai, che ha fatto della lotta all’immigrazione il suo cavallo di battaglia, ha confermato che l’iter per l’espulsione di questi 400 minori non è affatto sospeso (sui dettagli di questa specifica vicenda vedi quanto scrivevamo in questo articolo).

Tra i 120 della Bialik-Rogozin a rischio di espulsione c’è anche la dodicenne Esther, di cui dicevamo poco fa. Anche per questo motivo i protagonisti del documentario non sono andati a Los Angeles per la cerimonia degli Oscar, ma l’hanno seguita a Tel Aviv in una grande festa organizzata presso la scuola. La verità è che se fossero andati negli Stati Uniti rischiavano di non poter più rientrare in Israele. Mohammed, l’esule dal Darfur che adesso ha 19 anni, in un’intervista rilasciata ad Haaretz ha dichiarato che lui sognerebbe di ottenere la cittadinanza israeliana, ma sa benissimo che difficilmente potrà mai ottenerla.

È l’altra faccia di questo Oscar, altrettanto importante. Un volto problematico che ha portato anche un quotidiano moderato come il Jerusalem Post a porre con un editoriale qualche domanda sul sionismo a partire dal destino incerto di questi ragazzi. Il sionismo – ha chiesto in sostanza il giornale agli israeliani – può essere davvero inteso solo come una difesa degli equilibri demografici nello Stato d’Israele? O non sarebbe ora di ricordarci davvero dell’hevra l’mofet, l’idea di «società modello», «luce per le nazioni» che chi sognava il ritorno degli ebrei in Palestina aveva bene in mente? E può realmente uno Stato come Israele sentirsi minacciato da 400 minori stranieri?

Domande importanti che questo Oscar straordinario ha permesso di far venire a galla.

Clicca qui per accedere al sito ufficiale e vedere il trailer di Strangers No More

Clicca qui per leggere l’articolo di Yediot Ahronot

Clicca qui per leggere l’intervista a Mohammed Adam apparsa su Haaretz

Clicca qui per leggere l’editoriale del Jerusalem Post

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