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Israele-Usa, un rapporto ancora decisivo?

di Giorgio Bernardelli
21 marzo 2016
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A Washington si sono accesi i riflettori sull'annuale conferenza dell'American Israel Public Affairs Committee (Aipac), la lobby che sostiene gli interessi di Israele. Anche a questa convention, che si è aperta il 20 marzo e si chiuderà il 22, il personaggio più atteso è Donald Trump. Il rapporto con gli Usa resta importante per Israele, che però negli ultimi anni Israele ha intessuto anche altri rapporti di rilievo.


A Washington si sono accesi i riflettori sull’annuale conferenza dell’American Israel Public Affairs Committee (Aipac), il gruppo di pressione che nel mondo delle lobby americane è attivo a sostegno degli interessi di Israele. Anche a questa convention che si è aperta ieri, 20 marzo, e si chiuderà domani (22) il personaggio più atteso è ovviamente Donald Trump, che parlerà oggi. Con buona pace di Hillary Clinton (anche lei comunque invitata) è sul magnate che sta sbaragliando il campo repubblicano che si concentrerà la curiosità della platea dell’Aipac, anche per via del suo rapporto con Israele e con gli ebrei, pure questo molto più controverso rispetto agli standard degli ultimi aspiranti inquilini della Casa Bianca. Senza dimenticare che le prossime elezioni presidenziali Usa sono viste come il momento della verità per Benjamin Netanyahu: dopo il rapporto burrascoso con Barack Obama il premier israeliano ha puntato molto su un eventuale successore repubblicano, non immaginando di trovarsi poi davanti una figura come Donald Trump.

Rispetto a tutto questo discorso, però, c’è una domanda a priori che bisognerebbe cominciare a porsi: quanto conta ancora per Israele il rapporto con Washington? E – indipendentemente dall’esito di queste elezioni – quanto conterà domani? Da sempre tutti siamo convinti che l’asse con gli Stati Uniti sia vitale per Israele; e probabilmente le cose oggi stanno ancora così. Nel nuovo ordine mondiale però – e soprattutto nel nuovo Medio Oriente che si va configurando – anche su questo aspetto qualcosa sta cambiando. A sostenerlo è stato qualche giorno fa in un articolo pubblicato da Project Syndicate un osservatore autorevole come Shlomo Ben Ami, ex ministro degli Esteri israeliano ai tempi del governo di Ehud Barak, protagonista di primo piano nei negoziati coi palestinesi negli anni Novanta, nonché storico di fama internazionale. Ben Ami riflette sul congelamento del processo di pace e si chiede se sia proprio così vero che il suo risultato sia stato un isolamento internazionale sempre più marcato per Israele.

Alla freddezza dell’amministrazione Obama e di molte cancellerie europee l’ex politico laburista contrappone alcuni dati sull’attivismo del governo Netanyahu nei rapporti con l’Asia e con Mosca. Tra il 2000 e il 2014 le esportazioni di Israele verso l’Asia sono triplicate e oggi rappresentano un quinto degli sbocchi sui mercati dei prodotti israeliani. Cina, India e Giappone messe insieme superano oggi gli Stati Uniti quanto a rapporti commerciali con Israele. E poi c’è la Russia di Putin, sempre più attiva su tutti i fronti del Medio Oriente, che oggi con Gerusalemme ha un canale più aperto che mai. Ma Ben Ami va oltre e aggiunge alla lista anche nuovi partner impensabili fino a ieri: da Erdogan tornato a Canossa perché Israele è un partner troppo importante per l’economia turca, ai sauditi e alle monarchie del Golfo che sottotraccia tessono rapporti con il governo Netanyahu in chiave anti-iraniana. Per non parlare di alcuni europei come lo stesso Tzipras, in Grecia: un Paese tradizionalmente filo-palestinese oggi si sfila dalla direttiva sull’etichettatura europea delle merci provenienti dagli insediamenti israeliani. E guarda a Gerusalemme come a un alleato sulla questione di Cipro.

C’è un filo rosso in tutto questo che Ben Ami sottolinea: sono tutti rapporti figli della perdita di centralità della questione del negoziato con i palestinesi; dai cinesi a Erdogan, sono tutti partner ai quali il dato di fatto che nei rapporti con Ramallah sia tutto fermo non fa alcun problema. Quella dell’ex ministro degli Esteri non è però affatto un’analisi trionfalistica: si chiede quale sia il prezzo di tutto questo. E la risposta la individua in un volto di Israele sempre più lontano dalle grandi democrazie liberali e più vicino alla fisionomia dei nuovi alleati. «Le nuove opportunità della politica estera israeliana ci permettono di andare avanti con l’oppressione – scrive in conclusione con un giudizio molto duro -. E questo non è un bene né per la Palestina né per Israele».

È interessante aggiungere che quest’analisi preoccupata sia stata ripresa da Nahum Barnea su Yedioth Ahronot, proponendo anche un’ulteriore osservazione: queste nuove alleanze sono figlie di un contesto che le sta favorendo; ma che cosa succederà domani – si chiede Barnea – quando la guerra tra sunniti e sciiti sarà finita e i nuovi amici sauditi scompariranno così come sono arrivati? «Forse – è la conclusione di una delle grandi firme del giornalismo israeliano – verrà il giorno in cui ci domanderemo se non abbiamo venduto la nostra primogenitura per un piatto di lenticchie».

Clicca qui per leggere l’articolo di Shlomo Ben Ami

Clicca qui per leggere il commento di Nahum Barnea

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