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Israele/Palestina, la svolta di Airbnb

Giorgio Bernardelli
21 novembre 2018
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La nota risorsa online per l'affitto di case ai turisti ha annunciato il 19 novembre 2018 la decisione di boicottare gli insediamenti ebraici nei Territori Palestinesi. Ragioni e reazioni.


Alla fine, la questione dei bed and breakfast è esplosa. Ne avevamo parlato all’inizio di quest’anno nel dossier «La pietra d’inciampo» che sulla rivista Terrasanta avevamo dedicato alle colonie israeliane in Cisgiordania. Già lì segnalavamo come l’ostentazione di una normalità dentro la quale i muri e i reticolati tendenzialmente nemmeno si vedono, fosse il volto più quotidiano della vita negli insediamenti oggi. E come fosse proprio alla portata di tutti andare on line su una piattaforma come AirBnb e affittare un appartamento per almeno una settimana in una di queste cittadine di case bianche col tetto rosso che per i palestinesi sono il simbolo dell’occupazione, mentre per l’esercito israeliano sono un territorio impegnativo da difendere.

Tutto questo fino a non molte ore fa. Perché il 19 novembre proprio Airbnb ha annunciato di aver sospeso la possibilità di affittare i circa 200 appartamenti ubicati negli insediamenti che si trovavano on line sulla piattaforma. La società lo ha fatto alla vigilia della diffusione di un rapporto di Human Rights Watch che mette sotto la lente di ingrandimento il fenomeno, chiamando in causa anche l’altro più importante sito specializzato in materia e cioè Booking.com. Non solo: il rapporto chiarisce che tra gli appartamenti in questione ce ne sono almeno alcuni costruiti su terreni sui quali privati palestinesi possono dimostrare un diritto di proprietà e che l’esercito aveva loro requisito solo «per motivi di sicurezza». Questo significa che quelle case sono illegali per la stessa legge israeliana, anche se nessuno la fa rispettare.

Ma questo dettaglio nel Medio Oriente di oggi è irrilevante e così è già partita la controffensiva della destra nazionalista contro Airbnb, definito la nuova icona del movimento Bds (Boycott, Divestments, Sanctions) che mira a utilizzare le forme di boicottaggio economico per colpire gli insediamenti. Il governo israeliano ha anche minacciato ritorsioni contro Airbnb; ma è molto più probabile che si tratti solo di parole, visto il numero di israeliani che utilizzano la piattaforma e il numero di appartamenti affittati con questo sistema a Gerusalemme e a Tel Aviv. Nel frattempo, si attende la decisione di Booking.com a cui Human Rights Watch ha chiesto di seguire le orme di AirBnb nella definizione di una propria politica sulle case che stanno oltre la Linea verde, la linea armistiziale che segna il territorio internazionalmente riconosciuto di Israele.

Al di là dei risvolti polemici c’è un aspetto di questa storia che vale la pena sottolineare: l’importanza che oggi sta acquisendo il turismo nella questione degli insediamenti. L’immagine delle colonie come fortini isolati è sempre più lontana dalla realtà: la presenza israeliana in Cisgiordania ha oggi il volto di cittadine eleganti, parchi nazionali in zone archeologiche (per esempio Shilo), persino un autodromo (a Petsael poco lontano da Ma’ale Efraim). Posti che mirano ad attrarre turisti da fuori proprio come strategia per normalizzare la presenza israeliana «in Giudea e Samaria». In questa linea si inserisce anche il progetto – sostenuto dal governo Netanyahu – di far passare anche in Cisgiordania l’Israel Trail, il sentiero nazionale attrezzato che tocca i luoghi simbolo del Paese. Anche i camminatori, infatti, possono venir buoni per piantare una bandiera di Israele in un posto conteso.

La verità, quindi, è che al netto delle polemiche il caso Airbnb è solo la punta di un iceberg. Rimanda al problema di sempre: quale futuro per far vivere insieme due popoli in questa terra? E come rendere il turismo un ponte che unisce anziché un muro che divide? Calmate le acque l’impressione è che si tratti di domande destinate a restare ancora a lungo senza risposta in Israele e Palestina.

Clicca qui per leggere la notizia riguardante Airbnb

Clicca qui per leggere il rapporto di Human Rights Watch

Clicca qui per leggere un articolo sull’autodromo di Petsael

Clicca qui per leggere l’articolo sull’Israel Trail  

 


 

Perché “La Porta di Jaffa”

A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.

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