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Il Libano in crisi cerca nuovi equilibri

Francesco Pistocchini
10 novembre 2017
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Il Libano in crisi cerca nuovi equilibri
Il premier libanese dimissionario Saad al-Hariri.

Dopo le dimissioni a sorpresa del premier Hariri, il Libano deve ritrovare nuove forme di collaborazione tra lo schieramento sunnita legato all'Arabia Saudita e il fronte filoiraniano guidato da Hezbollah.


Nella continua partita a scacchi della politica libanese, le dimissioni annunciate il 4 novembre dal premier Saad al-Hariri, mentre si trovava in Arabia Saudita, sono state una mossa a sorpresa. A rendere ancora più incerto l’assetto di potere a Beirut si aggiunge il fatto che, dopo una settimana, Hariri non è ancora rientrato nel Paese. La famiglia dell’esponente politico sunnita risiede in Arabia Saudita, ma non è la sola possibile spiegazione: Riyadh potrebbe avere costretto Hariri alle dimissioni per rimettere in discussione gli equilibri interni libanesi, nel momento in cui lo schieramento sunnita, di cui il regno saudita è la potenza di riferimento, subisce un arretramento militare e diplomatico. Hariri potrebbe essere, perciò, trattenuto dal regime di Riyadh, la cui leadership sta rapidamente passando nelle mani dell’ambizioso principe Mohammed bin Salman, meno propenso ai compromessi di quanto non siano stati i suoi predecessori.

Si ridisegnano gli equilibri di potere del dopo-Isis in una vasta area diventata terreno di scontro a distanza tra le potenze regionali e occorre chiedersi se il Libano potrà conservare la stabilità interna che sorprendentemente in questi anni ha mantenuto, dopo il progressivo scivolamento della Siria nella guerra di tutti contro tutti.

Il Paese dei cedri è un concentrato delle tensioni geopolitiche mediorientali: oltre a rispecchiare gli innumerevoli gruppi religiosi che compongono la società, i partiti libanesi formano due schieramenti che hanno opposti riferimenti politici esterni. L’Alleanza 14 marzo raggruppa le forze contrarie al regime di Damasco, gode del sostegno di Stati Uniti, Francia e, specialmente dei sauditi che hanno a lungo finanziato anche l’esercito libanese. L’Alleanza 8 marzo, guidata dai cristiani maroniti e dagli sciiti di Hezbollah, si è sempre mantenuta fedele al governo siriano e intrattiene stretti legami con Teheran.

La competizione a distanza tra l’Arabia Saudita e l’Iran su molteplici fronti armati (non solo Siria e Irak, ma anche Yemen e Bahrein) non ha impedito alle forze politiche di trovare nell’ottobre 2016 un accordo politico generale. Questo ha portato all’elezione dell’ex generale maronita Michel Aoun a presidente della repubblica, carica che spetta per consuetudine a un cristiano ed era rimasta scoperta per oltre due anni. Dal compromesso presidenziale è nato anche un nuovo governo che ha retto il Paese fino all’annuncio di Hariri, che ha dichiarato di volere lasciare l’incarico per timore di subire un attentato e ha accusato Hezbollah e l’Iran (protettore politico del partito sciita) di avere alterato gli equilibri di potere. Hezbollah si è speso militarmente e con successo in Siria a sostegno di Assad e la lenta ma progressiva stabilizzazione della Siria – dove il regime non è stato rovesciato e controlla il 70 per cento del Paese – ha rafforzato questa forza politica e paramilitare guidata da Hassan Nasrhallah.

Per un anno Hariri ha guidato un pletorico governo di 30 ministri, espressione di partiti politici antagonisti, ma capaci di scelte pragmatiche nell’affrontare questioni urgenti per il Paese dei cedri. Il parlamento ha approvato per la prima volta dopo dodici anni la legge finanziaria, passo importante per tranquillizzare i mercati: il Libano ha ancora una crescita economica lenta e uno dei debiti pubblici più alti del mondo. Il governo ha varato le misure per attirare investimenti nelle esplorazioni nei giacimenti di gas al largo della costa, uno scenario assai promettente di sviluppo economico. Segnali positivi sono venuti anche dal settore turistico, ma tutto questo può subire un arresto.

Gli interrogativi sulla tenuta del Libano si susseguono dal 2011: la guerra siriana non è entrata solo nelle stanze della politica, ma ha pervaso la vita nazionale degli ultimi anni. Dai confini sostanzialmente aperti con la Siria sono giunte centinaia di migliaia di rifugiati (l’Acnur ne ha registrati un milione) che, a fronte di una popolazione di 5 milioni, fanno del Libano uno dei Paesi di maggiore accoglienza al mondo, ma con pesanti ripercussioni socioeconomiche. Una serie di episodi violenti hanno portato il Paese sull’orlo di una nuova guerra civile: scontri interconfessionali a Tripoli; omicidi di alcuni personaggi eminenti; attentati nella capitale. Nonostante questo il Paese si è dimostrato in grado di impedire l’infiltrazione dello Stato islamico e mantenere un complessivo quadro di sicurezza interna. Fino a quando durerà l’acrobatico equilibrio tra forze cristiane, musulmane sunnite e sciite?

In questo scenario si pongono due ulteriori incognite: la politica estera degli Usa che con Trump ha virato verso un chiaro appoggio sia ai sauditi, sia al governo israeliano, che con Hezbollah nel sud del Libano ha ancora i conti aperti.

Il presidente Aoun ora ha il difficile compito di mantenere aperti tutti i possibili canali di dialogo. Il 9 novembre ha incontrato il patriarca maronita, il cardinale Bechara Raï, il quale ha in programma di visitare Riyadh su invito dei sauditi. Una visita del principale esponente del cristianesimo libanese nella culla del wahabismo non è solo una novità che promette possibili aperture in ambito religioso, ma anche un prezioso canale di dialogo per superare l’ultima crisi libanese.

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