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Le donne israeliane e palestinesi marciano per la pace

Christophe Lafontaine
10 ottobre 2017
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Le donne israeliane e palestinesi marciano per la pace
Le donne del movimento Women Wage Peace nei pressi del Giordano l'8 ottobre 2017. (©Flash90)

Migliaia di donne, israeliane e palestinesi, l'8 ottobre hanno concluso una marcia di due settimane attraverso Israele e Cisgiordania per chiedere la pace.


E se la pace arrivasse dalle donne? Con il loro cuore, la loro esperienza e la loro sensibilità di madri, sorelle e figlie, migliaia di donne israeliane e palestinesi, scarponcini ai piedi e cappello in testa, hanno marciato per due settimane, esigendo dai rispettivi governanti la ripresa dei colloqui di pace. Ebree, musulmane, cristiane e anche atee, da tutti gli schieramenti politici, hanno affollato le vie delle città sia di Israele che della Cisgiordania. Quelle che domenica 8 ottobre sono arrivate a Gerusalemme erano migliaia (5 mila, secondo Reuters), essenzialmente israeliane, la maggior parte vestite di bianco – il colore della pace – con dei cartelli che chiedevano esplicitamente un accordo di pace.

L’iniziativa di questo evento è stata presa dal movimento israeliano Women Wage Peace (Le donne portano la pace). L’obiettivo? «Far sentire la voce di decine di migliaia di donne israeliane, ebree e arabe, di destra, di centro e di sinistra, e delle loro compagne palestinesi, che mano nella mano hanno intrapreso insieme questa via della pace», spiega Marie-Lyne Smadja, una delle fondatrici del movimento che ha appena tre anni. Dal 2014 Women Wage Peace milita per rilanciare il processo di pacificazione israelo-palestinese. La molla che lo ha fatto partire è stata la guerra dell’estate del 2014 nella Striscia di Gaza, che è costata la vita a più di 2100 palestinesi e 73 israeliani. Ad oggi più di 25 mila donne sono iscritte al sito dell’associazione, una cifra considerevole per lo standard israeliano e un successo per il movimento.

Lungo tutta la «Via della pace», dove ogni passo diventa buona pratica, erano previsti incontri, discussioni, esposizioni artistiche, visite culturali, archeologiche e interreligiose, eventi musicali, momenti di preghiera, tempi di scambio per valorizzare il contributo delle donne alla società e alla pace. Senza dimenticare le parole che Benedetto XVI ha consegnato con la sua esortazione apostolica Ecclesia in Medio Oriente nel 2012: «Riconoscendo la sensibilità innata per l’amore e la protezione della vita umana, e rendendo ad esse omaggio per il loro apporto specifico nell’educazione, nella salute, nel lavoro umanitario e nella vita apostolica, ritengo che le donne debbano impegnarsi ed essere più coinvolte nella vita pubblica ed ecclesiale». Il culmine, e motivo d’orgoglio dell’edizione 2017 della «Via della pace», è stato durante la marcia dell’8 ottobre che è partita dalle rive del Giordano. Nella pianura che confina col Mar Morto le donne si sono riunite sotto la Tenda della pace di Agar e Sara, che ricorda i due personaggi biblici perché madri rispettivamente di Ismaele e di Isacco, fratellastri e patriarchi delle religioni musulmana ed ebraica.

«Abbiamo bisogno di creare un vivere “insieme” per poter costruire la pace che tutti vogliamo» ha detto ad Afp Michal Frouman, madre di famiglia che vive nella colonia di Tekoa, in Cisgiordania. Nel gennaio 2016 è stata accoltellata da un palestinese mentre era incinta del suo quinto figlio, ma vuole continuare a «credere nella pace». «In quanto donna credente, io dico che non credere nella pace significa non credere in Dio» ha aggiunto. Per l’organizzatrice Huda Abuarquob, una palestinese di Hebron, «Questa marcia non è una manifestazione in più, ma un modo per dire che vogliamo la pace e che insieme possiamo ottenerla». Al microfono di Euronews Vivian Silver, che vive in un kibbutz vicino alla frontiera tra Israele e Gaza, sostiene lo stesso: «Dobbiamo trovare un compromesso politico, dobbiamo cambiare il paradigma che ci è stato insegnato per sette decenni. Ci è stato detto che solo la guerra ci porterà la pace. Non ci crediamo più. Abbiamo visto che è falso».

Tra le personalità israeliane che hanno sostenuto o partecipato a questa marcia figurano dei deputati dell’opposizione israeliana, ma anche della coalizione di destra, oltre che intellettuali, pensatori, artisti e scrittori venuti da ogni fronte. Sul versante politico, il dottor Ziad Darwish, della Commissione per le interazioni con la società israeliana,in seno all’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), ha affermato che la marcia delle donne per la pace beneficiava del sostegno dell’Olp e dell’Autorità palestinese. Mahmoud Abbas ha inviato un corriere personale alle marciatrici, nel quale ha invocato la creazione di uno Stato palestinese che viva fianco a fianco e in pace con Israele.

Da parte sua Hamas, che attualmente sta negoziando con l’Autorità palestinese il trasferimento del suo controllo sulla Striscia di Gaza, si è opposto alla marcia. Il movimento ha pubblicato un comunicato ufficiale che denuncia l’iniziativa e afferma che considera l’invito lanciato dalla Commissione per l’interazione con la società israeliana come «una rinuncia al consenso nazionale e un’offesa fatta alla storia del nostro popolo».

Le organizzatrici di Womens Wage Peace sperano anche che gli spazi di rappresentanza delle donne si allarghino e che si intensifichino i loro sforzi nell’interazione, nel dialogo e nell’impegno al fine di progredire nella costruzione di un futuro di pace. Ecco perché domenica 8 ottobre il movimento ha annunciato di voler creare un «Parlamento delle donne» palestinesi e israeliane, che si porrà come obiettivo quello di ricordare ai governanti che gli accordi di pace devono essere una priorità, come ha detto Marie-Lyne Smadja. «Gli uomini al potere non credono che alla guerra, ma attraverso la forza delle donne noi possiamo proporre qualcos’altro, qualcosa di nuovo» ha affermato ad Afp Amira Zidan, madre di una famiglia araba israeliana e una delle fondatrici di Womens Wage Peace.

I negoziati israelo-palestinesi sono a un punto morto dallo scorso aprile, in seguito al rifiuto di Israele di smantellare gli insediamenti e di liberare i prigionieri palestinesi detenuti da lungo tempo nelle prigioni israeliane.

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